venerdì 27 agosto 2010

Riflessioni attorno alla figura dell'educatore nelle comunità terapeutiche

di Christian Broch


Quello che cercherò di mettere in evidenza in queste pagine è il ruolo dell’educatore all’interno di un tipo di istituzione piuttosto particolare, la comunità terapeutica per persone tossicomani.
La figura dell’educatore all’interno della comunità ha subito una serie di modifiche sia a causa dei profondi cambiamenti dell’utenza che afferisce ai servizi, ma anche per i cambiamenti normativi e infine, per le mutazioni all’interno dei paradigmi metodologici che governano gli enti che si occupano di contrastare, prevenire e curare i fenomeni abuso da sostanze.
Per cercare di comprendere tutto questo percorso cercherò innanzi tutto di isolare le varie modifiche di paradigmi teorici a partire da quando le comunità iniziano ad aprire le loro porte.
In Italia la droga inizia a diventare un fenomeno sociale, un problema, verso la fine degli anni ’60, tanto che la prima legge che cerca di darne un inquadramento è del 1975.
Le comunità nascono anch’esse in quegli anni come risposte spontanee, a volte improvvisate al fenomeno della diffusione straordinaria dell’eroina all’interno della popolazione giovanile.
Penso sia importante sottolineare i termini “eroina” e “giovani consumatori” poiché questo è un tratto caratteristico del fenomeno in quegli anni. Tratto che si è modificato profondamente e che ci fa dire che oggi la droga non è più un fenomeno “giovanile” ma che coinvolge una target di persone molto più vasto.
Allo stesso modo il mercato della droga si è complicato fornendo ai possibili consumatori una gamma di sostanze di abuso molto varie.
Nella seconda metà degli anni ’70 le comunità si strutturano come luoghi nei quali accogliere persone che presentano caratteristiche peculiari abbastanza omogenee e comuni: chi entrava in comunità era solitamente un giovane uomo, consumatore di eroina per via endovenosa.
A questo fenomeno massiccio le comunità provano a dare una risposta anticipando, de facto, le risposte delle istituzioni pubbliche. Basti ricordare infatti che l’istituzione dei Ser.T. è frutto del famoso DPR 309/90.
Le risposte in quegli anni erano singolari, genuine, poco o per nulla tecniche, assai distanti da quelle “normate”, operate e declinate dalle attuali comunità terapeutiche accreditate.
All’interno di questo panorama variegato – come spesso ricorda giustamente Villa “le tossicodipendenze hanno sempre rappresentato il far west della clinica”, dove la preghiera, la gita in barca a vela, lo zappare gli orti, le psicoterapie avevamo lo stesso valore “curativa”.
All’interno di questa confusione metodologica e si sapere si possono tuttavia estrarre dei tratti comuni che hanno caratterizzato molte strutture nel corso di questi ann.
Bisogna innanzitutto tenere presente che le comunità terapeutiche in Italia hanno cercato di mettere insieme tre paradigmi, tre modelli: a) quello che si riferisce alla grande tradizione monastica, al chiostro. La comunità ha cioè il compito di mettere ordine (attraverso il lavoro, gli orari le regole) laddove la tossicomania ha portato disordine; b) la medicalizzazione del monastero, e cioè gli hôpital francesi fondati da Philippe Pinel… la comunità cioè come luogo chiuso, come isola, come cittadella, come officina in cui si riparano i guasti prima di tornare alla realtà; c) lo psicologismo in tutte le sue forme.
Su questo sfondo teorico la figura dell’educatore cerca una propria collocazione, si continua instancabilmente a modificare, a mutare, con fatica.
All’interno di questa cornice, per così dire, epistemologica si sono susseguiti alcuni paradigmi teorici che si sono stratificati l’uno sull’altro, complicando – e forse migliorando – la capacità di dare risposte degli educatori.



Il primo riferimento teorico:
“La comunità comune”


Il modello terapeutico iniziale della comunità ruotava intorno a tre premesse:
a) la comunità come luogo dove sia possibile ri-costruire la propria identità ed un proprio mondo relazionale
b) la strutturazione di un percorso di cambiamento per fasi standardizzato orientato ad accompagnare le persone in un graduale processo di crescita ed emancipazione dalla sostanza.
c) la proposta di un Luogo significativo, in grado di contenere gli agiti della dipendenza e di accompagnare - attraverso la relazione - verso un cambiamento complesso in cui si integrassero dimensioni differenti (identità, dipendenza/autonomia, rete, stile di vita, integrazione sociale ecc).
• Questo primo modello per fasi definiva “il percorso di comunità” e richiedeva agli ospiti di collocarsi all’interno di una strada “uguale per tutti”
In questo modello l’educatore aveva funzione di accompagnare l’utente, di essere il garante della tenuta del percorso, del rispetto delle regole del gioco, dei tempi e delle fasi prestabilite. La figura dell’educatore era estremamente ben definita ma anche tutelata dal programma della comunità; non si poteva concedere variazioni sul tema.
Questo modello caratterizza la figura dell’educatore molti anni. Per molto tempo cioè gli educatori lavorano all’interno di questo paradigma che è – per così dire a tutti i tipi di comunità.
E’ cioè un modello che accomuna le varie comunità: religiose, laiche, di stampo pedagogico, di orientamenti psicologici vari.
All’interno di questo modello l’educatore acquista , se non una professionalità, almeno una propria identità ben definita.
L’educatore si sente forte, protetto dal contesto, dal progetto terapeutico che fa da garante per lui, lo tutela. All’educatore non è chiesto di pensare all’individuo se non come variabile secondaria. Qui si chiede di fare rispettare il programma della struttura che rappresenta un elemento di di per sé terapeutico.

Il problema è che ad un certo punto questo modello inizia a scricchiolare…
Dal 1999 in poi iniziano ad entrare in comunità persone che avevano già svolto comunità, 1, 2 5, 7 volte.. l’età di conseguenza aumenta… e l’efficacia diventa sempre meno visibile.

Il secondo modello teorico:
“standard non standard”

L’incontro con persone che arrivavano in comunità che hanno già svolto ripetuti percorsi di comunità (anche con misure alternative al carcere), ci ha portato a confrontarci con questioni nuove relative alle motivazioni al cambiamento in situazioni di vincoli giudiziari, od al senso drammatico di sfiducia e fallimento in relazione a precedenti percorsi vissuti come non risolutivi
Abbiamo capito allora che la strada poteva essere uguale per tutti solo in parte, che alcuni avevano alle spalle lunghi e faticosi pezzi di strada già percorsi. Dovevamo imparare ad ascoltare le differenze nelle storie, nei percorsi, nelle possibilità e nelle difficoltà che sono parte integrante delle persone di cui ci occupiamo
Il modello per fasi è stato quindi integrato da una logica terapeutica centrata sulla individualizzazione dei percorsi e degli strumenti, a partire da un recupero della storia personale e terapeutica, con gli obiettivi di:
• effettuare un bilancio di competenze/difficoltà
• recuperare gli aspetti positivi della precedente storia terapeutica andando oltre le categorie della riuscita o del fallimento
• permettere la definizione di un progetto individualizzato
In questo modello l’educatore cambia di molta la propria posizione. Non è più il garante del progetto della comunità, diviene il garante del progetto educativo del singolo ospite della struttura. Per evitare che vari troppo sul tema, che ponga se stesso come motore dei processi ci cura e di cambiamento viene ingessato dal lavoro di équipe.
Il “cuore pulsante” si sposta in realtà non dal programma al singolo ospite, ma dal programma all’équipe. Equipe che valida i progetti che pensa su tutto che cerca di programmare ogni progetto, che di fatto ritaglia la figura dell’educatore ad una parte di un tutto più complesso, più articolato, ma anche indefinito.
L’educatore perde la propria responsabilità a favore del totem della multidiscipilinarità.

Questi 2 modelli comunque avevano una tenuta e una propria funzionalità su un tipo particolare di utenza, su quell’utenza che in qualche modo rispondeva a quelle caratteristiche che abbiamo messo in evidenza ma sulla quale possiamo fare un ulteriore passo per meglio comprendere.
La sostanza stupefacente per questo tipo di persone è in quella che Freud chiamerebbe “formazione di compromesso”. La droga cioè viene utilizzata dal soggetto per rendere la realtà più dolce. La realtà è lì, di fronte al soggetto il soggetto la coglie ma attraverso alla droga riesce a starci meglio. A leggerela e a viverla a modo suo. I questo caso la persona inizia ad utilizzare la droga per contenere l’ansia, l’angoscia di fronte alla realtà. E’ il caso dell’adolescente che inizia ad usare stupefacenti per sostenere il confronto con l’altro femminile, con l’altro sesso. La droga in questo caso è anche la medicina per le tensioni familiari. Spesso ci è accaduto che le persone da noi in comunità utilizzavano le droghe per sostenere la propria identità, la propria singolarità in famiglia. La droga copre le lacerazioni psichiche prodotte da dinamiche famigliari.
In questo caso il lavoro che si compie è quello di sciogliere il conflitto alla base, di modo da fare cadere l’utilizzo della droga. La droga è la stampella che permette di camminare quando si ha una frattura alla gamba.
Se noi risolviamo la frattura, il soggetto può buttare via la stampella.
La droga copre una struttura nevrotica, il soggetto può quindi padroneggiare la sua storia, le proprie “fratture interiore” e – seppur in modo parziale (questa una delle grazi lezioni di Freud) può farci i conti.


Il terzo modello teorico:
“due terapie è meglio di una”, ovvero “il diavolo e l’Acquasanta” (P. Jarre)

Al modello della personalizzazione si sovrappone nel tempo un altro. Quello dell’integrazione degli interventi.
Anche il modello centrato sulla personalizzazione mostra bene presto alcune lacune strutturali. Ad oggi lo stato attuale delle conoscenze ci spingono a considerare la dipendenza e la sua cura come processi complessi, di lunga durata che a volte richiedono interventi integrati sia sul piano farmacologico che su quello psicologico, educativo, sociale.
Questo modello si rivolge ad un’utenza differente a quella per le quali erano nate le comunità. Non si tratta più di giovani, ma spesso dei “reduci di guerra”, degli irriducibili di quelli che hanno alle spalle una carriera tossicomania lunghissima , di quelli che hanno svolto - ricadendo sempre nelle sostanze – comunità di vario tipo…..
Abbiamo capito cioè che la droga in questo caso è ciò che ancora il soggetto alla realtà. La droga cioè è ciò che consente al soggetto di vivere in qualche modo dei brandelli di realtà. Non c’è conflitto sotto che sia risolvibile. Restano all’esempio di prima non c’è frattura delle gambe. Qui non ci sono le gambe!!!! Se togliamo la stampella della droga. C’è un tonfo.
Tonfo che può non piacere a noi operatori ma tonfo che chiaramente piacce ancora meno a chi pesta la testa. In questo secondo caso la droga occulta una voragine. Bisogna stare molto attenti. Noi che tendiamo ad applicare il modello di cui sopra in questo caso corriamo il rischio di fare disastri. Detto in termini più precisi la tossicomania sta sopra ad una struttura francamente psicotica.
La possibilità di costruire e consolidare nel tempo la distanza dalla sostanza attraverso terapie sostitutive rappresenta per diverse persone la possibilità di emancipazione dalla dimensione di vita del tossicodipendente, se supportata da interventi che facilitino un percorso di cambiamento sul piano soggettivo, relazionale e di integrazione sociale
La “letteratura scientifica” sugli interventi integrati (farmacologici e psicosociali) e le prime esperienze nel mondo di comunità per pazienti in trattamento metadonico ci hanno suggerito l’opportunità di individualizzare gli strumenti necessari a ciascuno per raggiungere il proprio massimo livello di…
• …indipendenza possibile
Questo cambiamento in termini operativi vuole dire accogliere in comunità persone che proprio in relazione alla loro storia di dipendenza (lunga durata, grado elevato di craving) o per problemi psichiatrici associati, venivano “esclusi” da una progettualità terapeutica orientata al cambiamento, non essendo in grado di raggiungere e/o mantenere nel tempo i prerequisiti di astensione necessari per un percorso comunitario
à In termini clinici implica una “svolta copernicana”, una rappresentazione diversa dell’azione terapeutica, dei suoi obiettivi e dell’idea stessa del cambiamento possibile in una condizione di dipendenza.
L’ingresso di persone che assumo terapie sostitutive in comunità ha rappresentato una ferita narcisistica per l’operatore. Ferita narcisistica che si declinata da un lato come volontà di curare a tutti i costi, di “svezzare” il paziente dal metadone sempre e comunque, dall’altro a volte di fronte alle continue ricadute, subentrava la rassegnazione, all’idea di avere a che fare con soggetti cronici, con persone toccate da una “pecca morale” direbbe Tommaso d’Aquino, incancellabile.
E’ un campo ancora da costruire, poiché bisogna essere cauti, trovare un nuovo modo di intervenire tra il furor sanadi e la rassegnazione. È una cosa molto complessa che in l’educatore stenta ancora a trovare.


A questo punto vorrei mettere in evidenza una passaggio che la struttura nella quale lavoro sta cercando di metter in atto. E’ questo un processo ancora in itinere, che probabilmente proprio per la sua caratteristica peculiare è sempre in movimento in tensione.

Il nostro modello teorico
Il diavolo, l’acquasanta e…. “la peste”
All’interno di questo modello complesso si colloca l’ibridazione con la psicoanalisi di Freud, di Lacan.
Questo modello che pone al centro di tutto l’operato la persona accolta e che attorno a questa costruisce un modello di intervento… flessibile, globale, laico.
Portare la psicoanalisi in comunità non significa far sedere le persone sul lettino ma significa fornire agli operatori coinvolti un vettore che spinga a valorizzare la soggettività di ciascuno dei nostri ospiti.
Significa fornire agli educatori implicati nel processo di cura una direzione straordinaria della cura,
La psicoanalisi come Etica che ci “costringe” a mettere al centro di ogni nostro intervento il desiderio del soggetto accolto; il desiderio “l’essenza stessa dell’uomo” (Spinoza).

venerdì 20 agosto 2010

martedì 17 agosto 2010

uno spicchio di sole.....



Con l'estate, è iniziata l'installazione, da parte dell'Officina Meccanica di Rogeno, dei pannelli foto-voltaici all'interno della nostra Comunità terapeutico-riabilitativa. Si tratta di un investimento economico molto importante su cui la cooperativa ha deciso di scommettere la scorsa primavera e che ora prende corpo.
Per maggiori informazioni sull'energia prodotta dai pannelli fotovoltaici, clicca qui: pannelli fotovoltaici