mercoledì 4 dicembre 2013

Alcune riflessioni attorno le famiglie contemporanee (2° parte)

 Luca Ciusani, Psicologo Accoglienza e lavoro Molteno

Non è retorica, fare i genitori è un mestiere difficile. Si sa, non esistono ricette o programmi vincenti e i manuali per essere “genitori felici”, compilati a cura di psicologi ed educatori, appaiono spesso intrisi di luoghi comuni e poco rispondenti alle reali difficoltà che madri e padri si trovano a dover affrontare.
L’educazione dei figli non prevede standardizzazioni o regole che garantiscano il risultato; ogni genitore è diverso e ogni figlio anche. Lo stesso Sigmund Freud indicava l’educare come un compito impossibile1.
D’altronde, in estrema sintesi si potrebbe dire che l’obiettivo principale dell’educazione dei figli è proprio promuoverne la soggettività, porre le condizioni affinché essi possano sviluppare appieno le proprie potenzialità.
Può apparire un compito paradossale se si pensa alla necessaria rete di limitazioni che il processo educativo porta con sé per chi lo riceve. Individuo e società vengono a contatto: da una parte la soggettività come espressione della più intima particolarità personale e dall’altra le regole come limitazione della stessa a favore della collettività. Complicato pensare a come queste due tendenze possano coesistere nello stesso processo. Questo aspetto paradossale del resto è presente nell’etimologia stessa della parola. Educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto, ma l’utilizzo che ne viene fatto sta ad indicare quel processo attraverso il quale l’individuo riceve ed impara quelle particolari regole di comportamento che sono condivise nel gruppo familiare e nel più ampio contesto sociale in cui è inserito. Far emergere attraverso delle limitazioni.
Lasciando sullo sfondo quella che potrebbe sembrare una contraddizione, si può con certezza affermare che in ogni caso l’educazione non è un processo autarchico, non è qualcosa che l’individuo può fare da solo, ma al contrario implica una relazione dialettica.
I genitori, ma non solo se pensiamo ad esempio agli insegnanti, sono i soggetti elettivamente chiamati a rispondere a questa necessità. Va da sé che le difficoltà, i dubbi, le incertezze, e che diamine diciamolo, gli errori non siano l’eccezione ma la regola. Tuttavia crediamo sia interessante, almeno per il discorso che stiamo facendo, cercare di evidenziare e magari anche provare a capire, quali specifiche difficoltà porti con sé il discorso sociale della nostra contemporaneità.
Come si diceva sopra, fare i genitori è un mestiere difficile e con ragionevole sicurezza si può dire che lo sia sempre stato e che probabilmente lo sarà sempre; ma quali contorni prende questa sfida oggi?
Al di là delle differenze individuali, che ovviamente sono fondamentali ma non approcciabili da un discorso generale, si possono individuare due elementi caratteristici della modernità che crediamo giochino un ruolo importante nel determinare la difficoltà cui i genitori devono far fronte. Lo sfondo comune a questi elementi è la trasformazione della struttura familiare, di cui si è parlato precedentemente. La messa in crisi del modello familiare tradizionale, unita alla mancanza di un modello alternativo “forte”, costituisce la base con cui approcciare la questione.
1- Il discorso sociale sembra spingere verso una indifferenziazione dei ruoli. Negli ultimi decenni si è assistito ad una progressiva spinta verso una certa intercambiabilità dei membri della coppia genitoriale. Le cause di questo fenomeno sono molteplici e un’analisi puntuale richiederebbe più tempo, però due elementi sono facilmente rilevabili: da una parte l’emancipazione della donna, dall’altra l’aumento delle esigenze economiche familiari.
Se la prima ha avuto come conseguenza il fatto che le donne abbiano potuto trovare realizzazione in ambiti diversi da quello familiare, la seconda ha in molti casi reso non solo possibile ma necessario che accanto al lavoro dell’uomo, tradizionalmente accettato e promosso, si affiancasse quello della donna. Entrambi i movimenti sono andati chiaramente nella direzione di ridurre la differenza all’interno della struttura familiare.
L’emancipazione femminile e la necessità economica effettivamente portano con sé alcune conseguenze. Una donna che si trovi oggi in una situazione familiare, di matrimonio o di convivenza, si può ad esempio veder costretta a decidere tra la maternità ed il lavoro; d’altro canto un uomo si può trovare nella condizione di essere colui che si occupa principalmente dei figli. “Pari dignità tra uomo e donna” spesso assume i contorni di “stessa funzione”, come se la coppia genitoriale dovesse apparire scevra da ogni differenziazione.
Non ci sono regole fisse, i lettori ci scuseranno se insistiamo su questo punto, ma è un dato di fatto oltre ad essere una posizione etica. L’azione orientativa che una suddivisione netta delle competenze aveva sugli individui appare oggi labile. Chi mette le regole? Chi si occupa delle faccende di casa? Chi va a portare i bambini a scuola? Chi si occupa degli impegni dei figli? Chi cucina? Qualcuno rinuncia alla carriera per i figli?
Solo alcune domande, tanto per stare sul leggero, ma non sarebbe fuori luogo porne altre alla luce della cronaca. E’ notizia recente del primo “uomo-ex-donna” incinto… le possibilità inedite sono all’ordine del giorno.
2- Il tempo che i figli trascorrono con i genitori, o con uno di essi, si è notevolmente ridotto. Lo stile di vita attuale necessita che i genitori siano sempre più impegnati lavorativamente. I genitori sono meno a casa e spesso la rete familiare dei nonni, degli zii, ecc., non li può supportare adeguatamente, o semplicemente non viene considerata come la soluzione ottimale.
E’ un fatto che dalle prime esperienze di scuole a tempo pieno siano trascorsi circa quarant’anni e che progressivamente si sia assistito ad una continua domanda da parte delle famiglie di poter usufruire di servizi simili.
Attualmente si assiste ad un grosso impegno da parte delle istituzioni scolastiche e dei comuni per far fronte a queste esigenze. Tempo pieno, rientro, pre-scuola, dopo-scuola, anticipi, classi primavera, asili nido, centri estivi, attività integrative: queste le parole che indicano le risposte che le istituzioni provano ad attivare.
I tempi cambiano e le esigenze anche, ma è evidente che il tempo passato in famiglia si riduce. Quali conseguenze comporta questo?
Non crediamo che si possa fare un’equivalenza stretta tra il tempo passato in famiglia e l’efficacia dell’azione educativa dei genitori; piuttosto crediamo sia più interessante affrontare la questione rilevando come altre istituzioni, principalmente la scuola, siano state chiamate a dover assolvere a compiti inediti di natura educativa. Anzi, si potrebbe dire, cambiando di poco la prospettiva, che i genitori debbano oggi demandare parte del loro compito ad altri. Ma chi sono questi altri?
Per esempio gli insegnanti, i quali però, dal canto loro, stanno attraversando un difficile momento dal punto di vista del riconoscimento che le famiglie accordano al loro ruolo.
Riassumendo: compito difficile, necessità di demandare, discorso sociale non garante dei ruoli… la miscela è esplosiva.

martedì 19 novembre 2013

Alcune riflessioni attorno le famiglie contemporanee (1^ parte)


 Luca Ciusani, Psicologo Accoglienza e lavoro Molteno

Un più di libertà. Non fa più notizia dire che la società è cambiata: lo dicono i giornali, la tv, internet, è insomma sulla bocca di tutti e ormai anche lo stravolgimento cui la struttura familiare è incorsa negli ultimi decenni non fa più scalpore. E’ prima di tutto una constatazione, un’esperienza comune che le statistiche, ad esempio quelle divulgate dall’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia1, non mancano di confermare.
famigliaLa famiglia, alla luce dei dati, mostra una nuova poliedricità: si forma, si scioglie, si riforma, si allarga, si allunga e chi più ne ha più ne metta. Ciò che è certo è che non è più la struttura stabile, con caratteristiche precise, che è stata un tempo. Oggi la definizione stessa di famiglia appare problematica. Sui dizionari appaiono definizioni più generali, imperniate attorno ai legami delle persone che la compongono e i vincoli sanguigni, padre, madre e prole, non sono più sufficienti per individuare il concetto. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente? Le leggi sul divorzio, che hanno scardinato l’indissolubilità del matrimonio, o i pax, che hanno riconosciuto che una famiglia può essere composta da individui dello stesso sesso ed essere comunque considerata tale, hanno segnato il passo.
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: non si tratta di fare qui una valutazione moralistica, o peggio di giocare a dire che si stava meglio quando si stava peggio; semplicemente la nostra è una presa di coscienza dei cambiamenti che, volenti o nolenti, hanno investito l’attuale società e conseguentemente la famiglia come struttura sociale.
Se la famiglia patriarcale sembra essere un ricordo vintage, una sorte non diversa spetta a quella spinta a contrapporsi ad un modello così rigido, unico e prestabilito, che infiammava il dibattito degli anni settanta e ottanta. La valenza alternativa che la convivenza aveva rispetto al matrimonio ad esempio, sembra oggi perdere di peso. Al di là delle convinzioni personali, è il discorso sociale ad aver subito le modificazioni sostanziali. In altre parole a livello individuale si può ancora essere convinti della maggiore opportunità di una scelta piuttosto che di un’altra, ma a livello collettivo le indicazioni su come orientarsi appaiono molto più labili, a volte anche confuse. Su quale base scegliere il matrimonio o la convivenza in assenza di una norma sociale forte a cui aderire o contro la quale contrapporsi?
Sono i giorni in cui l’azione ideologica, politica e culturale che si fondava su una forte contrapposizione verso quei modelli prestabiliti, spesso aggettivati con termini quali “retrogradi”, “repressivi”, “bigotti”, “borghesi”, sembra aver perso la sua mission. L’impegno sociale e politico delle nuove generazioni ne è la cartina al tornasole. D’altra parte, scardinati i riferimenti collettivi viene a mancare ciò contro cui contrapporsi, emanciparsi. Q Quindi?
“Se Dio è morto tutto è permesso”2, annuncia il celebre paradosso dei fratelli Karamazof. Come in un presagio, Dostoevskij azzarda ciò che oggi appare come assodato: ognuno è libero di fare ciò che vuole. La morte di Dio spoglia infatti ogni valore dell’assolutezza, mostrandone la fragile base umana. L’ effetto è un “più di libertà” di cui spesso il soggetto è vittima e che si esaurisce nell’interrogativo “libertà da cosa?”.
Effettivamente la libertà trova la sua connotazione nella relazione con un altro termine: sono libero perché prima non lo ero, sono libero perché adesso le cose sono cambiate; ma che accade se non vi è più un riferimento che imponga un limite con cui confrontarsi e dal quale eventualmente emanciparsi verso la libertà? Quali sono le peculiarità di una condizione in cui la libertà sia, per così dire, già data?
Prendiamo a titolo di esempio il confronto-scontro generazionale che ha animato l’Italia dagli anni sessanta in poi, e mettiamolo in rapporto con la tendenza, ormai epidemica, dei figli a ritardare il momento di separazione dalla famiglia di origine. Certo, si dirà che le differenti condizioni economiche odierne non consentono facilmente questo passaggio; ma rimane il dubbio, almeno a noi personalmente, che questo fenomeno risenta anche di altri fattori. Rimane l’interrogativo di come trovare la propria strada da soli, senza un altro presente, in funzione del quale differenziarsi. L’educazione dei figli è l’ambito privilegiato di questi effetti. Come può un figlio arrivare a separarsi dai genitori se essi non rappresentano un termine dal quale poter prendere le distanze?
Il più di libertà, di cui si diceva prima comporta effetti inediti, a volte eclatanti. In questo senso, la questione che appare maggiormente paradigmatica rispetto al processo in cui i modelli forti in ambito sociale sembrano venire meno, è quella relativa all’identità sessuale. La cronaca ci è testimone, sono sempre più diffuse le pratiche chirurgiche e legali per il cambiamento del proprio sesso. Possedere una certa coppia di cromosomi, XX o XY, non è una garanzia sufficiente rispetto all’identità sessuale: uomini in corpi di donne e donne in corpi di uomini.
Se in passato il discorso familiare e sociale promuoveva le linee maschio-uomo-marito-padre e femmina-donna-moglie-madre secondo una temporalità definita e difficilmente mutabile, oggi le cose sono cambiate. E’ il singolo che si trova a potersi-doversi porre l’interrogativo rispetto alla propria identità di genere; ciò che era implicito, almeno a livello sociale, diventa ora negoziabile.
La mancanza di modelli forti, di ideali, ha come conseguenza la parcellizzazione delle identità e quindi la necessità per ogni singolo di contrattare la propria esistenza individualmente, senza riferimenti collettivi.
Le crisi della religione e della politica cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, crediamo debbano essere lette con la stessa logica. Gli ideali che identificavano i valori sociali cui attenersi, riassumibili nella triade Dio, Patria e Famiglia, appaiono anacronistici di fronte al relativismo e alla globalizzazione che caratterizzano l’epoca contemporanea.
Rispetto alle prime due, Dio e Patria, sorgono domande impensabili anni addietro, ma oggi del tutto legittime, anzi politically-correct. Quindi, ci si può chiedere a quale Dio ci si riferisca quando si parla di Dio? A Jahvè, Allah, Buddah? Una prospettiva ormai molto diffusa è che la religione sia un costrutto dell’uomo e che l’attaccamento ad una religione piuttosto che ad un altra sia fondamentalmente determinato dal luogo di nascita. Coerentemente con questa prospettiva si è portati a dire che le varie fedi afferiscano comunque allo stesso Dio universale, che nelle varie religioni trova diverse modalità di manifestarsi. Saremmo stati così espliciti su una pubblicazione destinata alle scuole anni fa?
E poi l’altra domanda, quale Patria? Italiana, Europea, Mondiale, Universale? Lo stato sembra aver perso il blasone di istanza sovraindividuale garante del benessere dei cittadini. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma è un’evidenza che il riconoscersi nei valori tradizionali della patria appare alquanto difficoltoso. Da una parte il graduale ma progressivo disimpegno dei cittadini nei confronti dello stato (ne è dimostrazione l’assenteismo dalle urne elettorali), dall’altra la ricerca di riferimenti diversi rispetto alla patria, testimoniano di come questa non svolga più elettivamente questa funzione.
Un meno di ideale e un più di libertà individuale, così si potrebbe riassumere l’insieme di modificazioni che hanno investito il nostro tessuto sociale. Al di là di ogni considerazione di ordine morale, crediamo sia importante tener conto di queste riflessioni, per cercare di comprendere le condizioni con cui i singoli individui si trovano a confronto. Perché ciò che conta in fondo è l’effetto che queste trasformazioni hanno sulle singole persone e sulle singole famiglie. Ogni cambiamento porta con sé delle conseguenze, possibilità e difficoltà; ci siamo quindi chiesti, alla luce di queste considerazioni, cosa significhi oggi diventare genitori.

mercoledì 6 novembre 2013

Biscotti, Spending, Politiche internazionali e tossicodipendenze

di Riccardo Carlo Gatti, Medico, Psicoterapeuta e Specialista in Psichiatria, Direttore del Dipartimento delle Dipendenze della A.S.L. di Milano
(articolo tratto da: www.droga.net)


Leggiamo: “Oreo, il biscotto neroe bianco formato da due amaretti a sandwich, crea dipendenza”. Uno studio dell’Universita’ del Connecticut pubblicato lo scorso 15 ottobre spiega il meccanismo della dipendenza per alcuni alimenti zuccherati e grassi. Nello studio, diretto da Joseph Schroeder, professore di neuroscienze, con l’aiuto di studenti 13/15enni, due gruppi di topi sono stati separati. In un gruppo, i topi potevano scegliere, alla fine di un labirinto, tra degli Oreo e dei dolci di riso e potevano utilizzare tutto il tempo che volevano. Nel secondo gruppo, cosi’ punto di domandacome prima, ma la scelta era tra della droga (morfina o cocaina) e una soluzione di acqua salata. Risultato: i topi del primo gruppo hanno passato la maggior parte del tempo vicino ai biscotti al cioccolato mentre quelli del secondo gruppo dove c’era la droga. Gli Oreo sono allora desiderati cosi’ come avviene per la cocaina?” (tratto da ADUC).
Forse qualcosa non funziona nella traduzione dell’articolo o nel ragionamento. Così come è mi sembra che i topi preferiscano i biscotti ai dolci di riso e la droga all’acqua salata ma forse non ho capito bene.
Esiste anche un’altra versione della notizia: The study, which will be shown at the Society for Neuroscience’s annual conference next month, involved placing an Oreo cookie on one side of a maze and a rice treat on the other. The rats spent most of their time going for the Oreo. The researchers also performed a similar test, but instead of an Oreo cookie they replaced it with morphine and in another test they used cocaine. In both cases the rats preferred the narcotics to the rice cake. (Fonte DotTech.org) (Lo studio, che sarà presentato alla conferenza annuale della Società di Neuroscienze il mese prossimo, consisteva nel mettere un biscotto Oreo su un lato di un labirinto e una delizia di riso, dall’altro. I ratti hanno trascorso la maggior parte del loro tempo per raggiungere il biscotto Oreo. I ricercatori hanno eseguito anche un test simile, ma hanno sostituito il biscotto Oreo con la morfina e in un altro test hanno usato cocaina. In entrambi i casi i topi preferivano i narcotici alla torta di riso
L’esperimento, quindi, potrebbe anche dimostrare che, a quei topi, non piace la torta di riso.
Naturalmente bisognerebbe leggere lo studio per capirne qualcosa di più ma la maggior parte delle persone che hanno ricevuto la notizia dai media non lo leggeranno mai e ricorderanno solo che la cocaina … è come i biscotti: piace anche ai topi.
Il tutto fa parte di comunicazioni che hanno il risultato complessivo di “sdoganare” sempre di più le droghe all’interno di un insieme di notizie che ci bombardano, facendoci credere che siamo tutti dipendenti da qualcosa.
Così, lo zucchero, improvvisamente, diventa pericoloso come la cocaina mentre vengono proposti sul mercato dolcificanti, derivati da piante coltivate, che costano quanto quella droga. Ogni giorno scopriamo che la cannabis fa bene a una malattia diversa in modo che, riassumendo, ci si ricordi che fa bene e basta o, almeno, non fa male. Per le altre droghe siamo ufficialmente tranquillizzati dal Governo rispetto al fatto che il loro uso diminuisce (salvo che, guarda caso, per la cannabis) mentre, marginalmente, ci si accorge che ce ne sono sempre più sul mercato. Chi mai le userà?
Che succede, dunque? A mio parere siamo in una fase speculare a quella che, a fine anni ’80 – inizio anni ’90,  vedeva le droghe come un male assoluto. Allora la comunicazione spingeva alla mobilitazione contro questo male, trasformava in eroi tutti coloro che lottavano contro la droga e chiedeva allo Stato di fare di più. Oggi, in Italia, tutta l’attenzione è spostata sulla “ludopatia”, sul gioco d’azzardo patologico, e gli Amministratori fanno a gara anche per limitare fisicamente la presenza delle SLOT machine. Evidentemente  si pensa che solo la loro presenza possa portare molte persone alla rovina. Gli spacciatori di droga, invece, sono dappertutto (anche sulla Rete) ma questo, in termine di mobilitazione politico – sociale, sembra diventato, improvvisamente, un problema minore. Evidentemente il ragionamento è che ad una macchinetta mangiasoldi non si resiste mentre le droghe sono come i biscotti: si possono mangiare e, con un po’ di attenzione, si riesce anche a mantenere la linea. Nel frattempo gli esperti che sparano, ormai,  percentuali tra il 2 ed il 6 % della popolazione per ciascuna dipendenza, sembrano complessivamente voler dimostrare che il problema non è la dipendenza, che, a far le somme riguarda tutti, ma come viene vissuta.
Tutto ciò avviene nel mondo occidentale, quello, per intenderci, che direttamente o indirettamente gravita attorno all’influenza degli Stati Uniti. Difficile dire se ci siano connessioni, ma effettivamente, negli USA, in tema di tossicodipendenze, c’è stata una sorta di rivoluzione da quando i decessi per l’abuso di farmaci hanno superato quelli di eroina e cocaina messe assieme e da quando l’atteggiamento proibizionista di alcuni Stati, rispetto alla Cannabis, è cambiato. Il tutto rende il fronte della “guerra alla droga” come quelle linee fortificate che, mantenute per anni perfettamente attive e funzionanti, hanno una apparenza minacciosa e consistente, sino a quando non vengono aggirate, diventando, improvvisamente, inutili perché il fronte non sta lì dove sono state costruite ma … da un’altra parte.
Il problema è che sulla linea fortificata di questa guerra noi abbiamo schierato tutto, compreso il sistema di cura costituito da Servizi Tossicodipendenze e Comunità Terapeutiche che, non per nulla, qualcuno considera parte più di un sistema di controllo sociale che di intervento terapeutico. Aggirato il fronte della guerra alla droga ed in tempi di Spending review, la tentazione di considerare anche questa parte del tutto come qualcosa di superato e inutile si farà forte.
Prima o poi qualcuno si chiederà a che servono Ser.T. e Comunità terapeutiche e la risposta non sarà più così scontata come un tempo. In questo caso, ad esempio, più che le ideologie conteranno i risultati. Oggi, senza dubbio, il sistema delle dipendenze è ingaggiato soprattutto sul tema della cronicità ed in questo non c’è nulla di strano. In generale il Servizio Sanitario Nazionale spende la maggior parte delle sue risorse per la cura di patologie croniche. Il rischio, tuttavia, è che, gradualmente, il sistema delle dipendenze, aggrappato alla cronicità, perda la sua funzione di cura, mantenendo quasi esclusivamente quella di contenimento e di assistenza dove, forse, organizzazioni diverse da quelle tipiche della cura, potrebbero avere una migliore efficacia di intervento.
Insomma, una volta crollato il fronte della “guerra alla droga”, Ser.T. e Comunità potrebbero avere ancora senso all’interno del Servizio Sanitario Nazionale solo dimostrando i loro risultati in termini di cura. Il problema è che, attualmente, hanno grandi difficoltà a farlo. Salvo eccezioni non sono, infatti, “culturalmente” pronti ad una prassi operativa che comprenda l’esplicitazione delle performance reali in questo senso.   La stessa teoria “scientifica”, per anni recitata a memoria e solo recentemente messa parzialmente in discussione, che la tossicodipendenza sia una patologia cronica e recidivante, non ha aiutato.
Che accadrà dunque? Si rinuncerà a costruire una “clinica delle dipendenze patologiche” in dinamico divenire e ci si limiterà a curare chi ha patologie mentali gravi che comprendono una dipendenza? Tutto ciò che ha a che fare con prestazioni educative o assistenziali uscirà dall’ambito di azione del Servizio Sanitario? Al momento è difficile dirlo anche se alcune linee di tendenza in questa direzione sembrano delinearsi. Certamente il settore sarà chiamato a ridefinirsi ed a rendere conto internamente ed esternamente in modo più preciso e dettagliato di ciò che fa, di come lo fa e con quali risultati.
Vedo il tutto come qualcosa di irrinunciabile e positivo.
L’importante è che durante questo percorso le ragioni ideologiche, politiche ed economiche esterne al sistema che ne hanno determinato l’esistenza in tempi di guerra alla droga non ne determino, ora, la dismissione con il cambio di strategie che nulla hanno a che fare col curare o con il prendersi cura. Leggendo tra le righe di notizie che paragonano la cocaina ai biscotti e che ogni giorno inventano una nuova patologia scopriamo che le dipendenze patologiche e l’abuso di sostanze non sono certo in contrazione ma rivelano nuovi drammatici risvolti che di volta in volta, di luogo in luogo, sono più o meno considerati in virtù di ragioni politiche e di interessi commerciali non sempre chiari ma, purtroppo, determinanti. Forse lo zucchero sarà anche peggio della cocaina ma la notizia non può nascondere il problema reale che negli Stati Uniti le morti per farmaci antidolorifici oppiacei abbiano superato quelle di cocaina ed eroina messe assieme. Invece, siamo distratti dai biscotti e per essere più precisi, dalla crema che contengono che, evidentemente, piace molto ai topi ma anche ai media e magari anche a ciascuno di noi.
Concludendo: abbiamo parlato di guerra alla droga di nuove politiche e del destino del sistema di intervento e, forse, ora non avete voglia di ulteriori ragionamenti e nemmeno di droga o di farmaci antidolorifici ma, magari, di biscotti … si. Per questo la comunicazione è una delle anime del commercio e contribuisce anche a definire i nostri desideri, le nostre decisioni e le nostre azioni. L’importante sarebbe riuscire a capire a favore di chi o di cosa … ma questo è un altro discorso. Forse.

lunedì 28 ottobre 2013

Casate Online - Molteno: Silvano Ratti premiato con il ''coroldino d'oro''

Una bellissima serata organizzata dai nostri amici dell'Associazione L'Arco che ha premiato uno dei nostri imagnifici volontari.
Grande Silvano, ti vogliamo bene!!!!!!! 

Molteno: Silvano Ratti premiato con il ''coroldino d'oro''


Si è svolto a Molteno l'atteso appuntamento della seconda edizione del Coroldino d'oro, il riconoscimento che viene assegnato, con il patrocinio del comune, dall'associazione Arco ad un cittadino che si è saputo distinguere per la sua fervente attività di aiuto verso il paese.
"Ci ritroviamo anche quest'anno in occasione di questa importantissima ricorrenza per sigillare la recente solidarietà tra la Cittadinanza di Molteno, l'Arco e la Comunità Accoglienza e Lavoro di Coroldo. Quindi oggi abbiamo scelto di premiare una persona che sia simbolo di questo nuovo connubio" ha spiegato il presidente dell'associazione Patrizia Dell'Oro prima di svelare l'identità del premiato. Si tratta di Silvano Ratti, moltenese dalla nascita e "da diversi anni impegnato ad aiutare tutti ma in special modo gli ospiti della comunità Accoglienza e Lavoro sempre con grande generosità e costanza". Questi i motivi che hanno portato alla scelta.
Silvano Ratti tra il sindaco Mauro Proserpio e Patrizia Dell'Oro dell'associazione Arco

La benemerenza è andata dunque a questo cittadino che opera da sempre al servizio delle persone bisognose e che, per approfondire questa sua vocazione, si è recato spesso fuori dall'Europa, dove è entrato in contatto con un'altra realtà e cultura, quella africana.
Silvano Ratti, terminati gli studi, ha cominciato ad esercitare la professione di falegname nella bottega di Livio Cazzaniga, un artigiano di Barzanò che tramanda al proprio allievo la passione della pittura. Nel 1989, Livio convince Silvano ad accompagnarlo nella missione di Matiri in Kenya per aiutarlo nella decorazione della loro chiesina appena rinnovata. In questi luoghi Silvano ha conosciuto la povertà e la miseria, ma l'Africa, nonostante il triste lato della sofferenza, entra per altre mille ragioni nel cuore delle persone che la visitano e non ne esce più. Da quella prima volta ha trascorso, quasi ogni anno, almeno un mese per aiutare la missione, insegnando ai ragazzi il lavoro di falegname ed eseguendo lavori di ogni sorta.
Nel frattempo a Molteno si è formata l'Associazione Pensionati Moltenesi, che ha avviato una serie di servizi per il Comune e un nuovo rapporto con la Comunità Accoglienza Lavoro di Coroldo. Silvano si è da subito distinto per la sua collaborazione. Questa sua generosità è stata formalmente riconosciuta attraverso la cerimonia che si è tenuta venerdì 26 ottobre. Dopo la proclamazione, i presenti hanno proseguito la serata allietati da musica e balli.

tratto da: www.casateonline.it

 

mercoledì 23 ottobre 2013

Ascoltare non basta


di Simone Feder, psicologo casa del giovane di Pavia

Il mondo che vivono i ragazzi oggi non l’hanno costruito loro, è il frutto di ciò che noi adulti abbiamo realizzato per loro.
La nostra è l’ultima generazione ad aver obbedito ai genitori e la prima ad obbedire ai figli. È forse questa la colpa del tanto disagio giovanile di oggi?
Abbiamo cercato in tutti i modi di confondere i ruoli, diventare amici dei nostri figli cercando di comprendere ad ogni costo i loro problemi, abbattere il più possibile le differenze per avvicinarci sempre più al loro mondo irraggiungibile.
Il risultato: abbiamo giovani con poche certezze e tanti dubbi, mancano di regole e di “spina dorsale”.
Quali proposte facciamo loro? Oggi gli adulti faticano a porsi al fianco dei giovani, ad approcciarsi a loro, e non riescono ad essere delle presenze discrete e dei solidi punti di riferimento, ad accompagnarli alla scoperta della vita. E così Pinocchio, invece di diventare un ragazzo vero, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il paese dei balocchi.
Molti di questi nostri ragazzi soffrono e faticano a crescere perché non hanno alternative! ‘Non c’è altro da fare’ è per questo che poi fanno indigestione di “sballo”, di esperienze ai limiti, ricercando nei loro stessi coetanei quelle sicurezze che non possono dare e che dovrebbero ricevere dagli adulti.
E’ sempre più bassa l’età in cui i ragazzi fanno uso di sostanze alcoliche o stupefacenti, non esistono “posti” o locali che possano ritenersi sicuri da questo punto di vista. I traguardi diventano il divertimento e il godersi la vita e le responsabilità non vanno più di pari passo con la maggiore libertà che, giustamente, l’età dell’adolescenza richiede. E tutto ciò porta ad acuire la loro sofferenza, il loro non accettarsi, l’insicurezza.
E’ importante dar luoghi sicuri all’interno dei quali sentano accolte queste loro difficoltà e capiti i loro bisogni, spazi dove dar loro ascolto nelle scuole e nei posti di aggregazione. Non semplici ‘sportelli di sfogo’, ma luoghi dove trovare risposte per progettualità concrete e proposte realizzabili, che partano dalle risorse interne all’individuo e del proprio territorio.
Non possiamo limitarci ad ascoltare, non basta! Dobbiamo mirare alla promozione sociale e allo sviluppo personale del singolo individuo, incentivando le persone a costruire da sé le proprie qualifiche e le risposte ai bisogni, offrendo spazi e laboratori in cui possano creare ciò di cui hanno bisogno rendendosi protagonisti del loro cammino di crescita.
I giovani devono poter intravedere il modo non solo di mettere in discussione fino in fondo il loro stile di vita, ma anche di prefigurarsi delle ipotesi concrete di cambiamento, respirare e conoscere quell’”alternativa” essenziale per abbandonare definitivamente i loro schemi e diventare così consapevoli di sé, delle proprie scelte, delle proprie emozioni e del mondo che li circonda, soggetti d’esperienza e protagonisti attivi della propria vita.
I tanti anni a contatto con il mondo del disagio ci portano a dire è necessario radicare in profondità nuovi criteri, nuovi valori, nuova spiritualità che portino il giovane a conoscere, individuare, accettare e verificare nuove modalità di essere.
Il nostro deve diventare soprattutto il tempo della responsabilità e dell’investimento a lungo termine. Ritengo questa la vera strada della prevenzione.

venerdì 4 ottobre 2013

L’arte della cura


di Luca Ciusani 

L’associazione tra la genialità e la sregolatezza è entrata da tempo ormai immemore nel immaginario collettivo. Questa immagine sembra associare la figura dell’artista ad una personalità ed ad uno stile di vita fuori dal comune, eccentrico, spesso bizzarro.
A riguardo ogni disciplina artistica può vantare esempi illustri. Solo per citarne alcuni si pensi a Van Gogh che si amputò un orecchio e lo spedì per posta all’amico Gauguin o a E. A. Poe che visse una vita contraddistinta da eccessi d’alcool, droghe e ricoveri negli ospedali psichiatrici.
Stando invece all’interno dei nostri confini voglio citare la grandissima poetessa Ada Merini della cui vita,segnata dall’esperienza dell’ospedale psichiatrico, scrisse pagine di rara bellezza e Carmelo Bene, definito uno dei più poliedrici artisti della storia del teatro mondiale, che definì la sua esistenza “un capolavoro, uno schiaffo in faccia alla vita mediocre e puttana”.
In ambito musicale, dal blues, al jazz, al rock, al rap la lista di esempi è pressoché infinita. Robert Johnson, uno dei più grandi blues-man di tutti i tempi, era convinto di aver stretto un patto con il demonio, il jazzista Charles Mingus durante un concerto con Duke Ellinton rincorse il suo sassofonista con un’ascia perché non era soddisfatto del suo modo di suonare. Per non parlare degli eccessi delle rock star guidate dalla nota triade sesso-droga-rock&roll.
La letteratura di matrice psicologica, ma non solo, ha molto interrogato il legame tra follia e creazione artistica. Le diverse teorie e spiegazioni, nonostante le diversità spesso marcate, concordano su di un punto,vale a dire che l’arte è uno strumento che l’artista utilizza per esprimere qualcosa di sé che altrimenti rimarrebbe inespresso.
Questa osservazione, a mio giudizio incontrovertibile, necessita di una specificazione che riguarda lo statuto dell’opera, del prodotto del lavoro di creazione. Partendo dal presupposto che esso esprime qualcosa dell’artista, a mio giudizio questo può avvenire secondo due logiche distinte. La prima è che l’opera risponda alla volontà dell’artista di esprimere un pensiero, di denunciare un fatto, di sostenere un’idea; nella seconda l’opera è un “sostituto” dell’artista, un vicario che ne fa le veci, come se attraverso l’opera l’artista potesse mostrarsi a se stesso e al mondo.
Benché la differenza tra le due prospettive sia spesso sfumata, anche per via dell’interpretazione che critica e pubblico possono dare delle opere, credo sia utile porre questa distinzione per cogliere la diversa posizione dell’artista nei confronti dell’opera: nel primo caso l’opera è uno strumento, un mezzo che l’artista utilizza per raggiungere uno scopo; nel secondo la produzione artistica è una via, in alcuni casi una necessità,per poter esistere. Questa seconda prospettiva è quella di maggior interesse nel rapporto tra arte e cura.
Bisogna fare anche un’altra considerazione, se è vero che esiste un rapporto stretto tra produzione artistica e follia, è altrettanto vero che la seconda non garantisce della prima, in altre parole non tutte le persone sofferenti sono degli artisti,ça va sans dire.
Ci sono modi in effetti molto meno raffinati per trattare il proprio malessere, ad esempio l’utilizzo di sostanze quali l’alcool o la droga. Frequentemente le biografie degli artisti sono contrassegnate da eccessi di questo tipo. Questo va interpretato, a mio giudizio, come una conferma della sofferenza soggettiva sperimentata da queste persone. L’idea che le sostanze psicoattive possano sviluppare le capacità artistiche,aprire le porte della percezione come scrisse Haldous Huxley, è infatti smentita dai fatti.
Più realisticamente le biografie di molti artisti mostrano che l’utilizzo di sostanze distrugge l’artista più che farlo progredire nella sua produzione. In altre parole ciò che lega la produzione artistica e la sregolatezza degli stili di vita di alcuni artisti è il malessere soggettivo.
Senza forzare troppo il discorso si può anzi pensare alla produzione artistica come una sorta di cura al loro malessere esistenziale. In questo senso la via dell’arte è modo, piuttosto elitario, per esprimere e quindi indirettamente curare il proprio disagio.
Questo pensiero è ciò che sta alla base di un lavoro di cura che svolgiamo all’interno della comunità di recupero per tossicomani e alcolisti gestita dalla Cooperativa Accoglienza e Lavoro di Molteno.
Dal 2007 all’interno della struttura sono stati attivati una serie di laboratori espressivi, di cui il Lab-Art (Laboratorio Artistico) è colonna portante.
L’idea di fondo è che attraverso un canale espressivo alternativo alla parola, si possa dar voce a quel disagio,a quella sofferenza muta che il soggetto sperimenta e alla quale, durante il corso della sua vita, non ha saputo porre un rimedio diverso dalla completa estraniazione prodotta dall’utilizzo di droghe o alcool.
Ci si potrebbe chiedere perché si rende necessario un canale espressivo alternativo alla parola, in fondo, da Freud in poi, la cura del disagio psichico si lega indissolubilmente all’utilizzo della parola. La risposta è da ricercarsi nella gravità del disagio che si deve affrontare. La tossicodipendenza pone infatti, sia il soggetto afflitto da questa patologia sia il curante, di fronte al fatto che la parola si mostra spesso impotente.
Chi ha esperienza nella cura della tossicomania sperimenta che frequentemente il discorso che porta il tossicomane si configura come vuoto o stereotipato, comunque incapace di rendere conto del malessere che il soggetto vive. In queste situazioni l’utilizzo di canali espressivi maggiormente fruibili, contrassegnati da una logica più “immediata”, quale ad esempio la pittura, permette al soggetto di costruire una rappresentazione di sé e del suo disagio altrimenti impossibile.
Si potrebbe dire che di fronte a malesseri muti, quali la tossicomania, l’arte permette la costruzione di una rappresentazione altrimenti impossibile. E’ come se, attraverso la creazione di un’opera, il soggetto potesse dire, a sé e al mondo, “io sono un po’ questo”.
Certo va detto che questo più che essere un risultato è un passo, la testimonianza di un lavoro in corso. Attraverso la produzione di un opera che rappresenta qualcosa di sé il soggetto potrà in seguito, nella cura,interrogare il suo lavoro espressivo cercando una spiegazione che renda conto di ciò che ha realizzato.
Particolare importanza riveste, nei laboratori espressivi, la figura dell’operatore. All’interno della cooperativa ogni laboratorio è sostenuto dal lavoro di un educatore esperto nell’attività proposta. Egli ha il compito di mettere al servizio dei partecipanti sia le proprie competenze specifiche, sia il proprio desiderio nei confronti dell’attività proposta, affinché ogni partecipante possa utilizzare al meglio il laboratorio per esprimere qualcosa di proprio, qualcosa di personale.
Nel 2012 la cooperativa ha realizzato un video dal titolo “farsi un corpo”, a cui mi permetto di rimandare (parte 1 http://www.youtube.com/watch?v=uPZArtH4jUo; parte 2http://www.youtube.com/watch?v=BKZLusex5MI; parte 3http://www.youtube.com/watch?v=bx4DIqL3Su4).
In esso è descritto un progetto artistico a cui hanno partecipato alcuni utenti della comunità. Si tratta, oltre che di una testimonianza in prima persona, di un segno dello sforzo, clinico e teorico, messo in campo in questi anni al fine di sperimentare percorsi terapeutici maggiormente rispondenti alle forme di disagio che quotidianamente incontriamo nel nostro lavoro.
Il video in questione inizia con una frase che voglio riportare qui in chiusura perché credo riassuma efficacemente il motivo per cui abbiamo provato e continuiamo a provare ad utilizzare l’arte nella cura della tossicomania: “diamo voce a storie pesanti, quando le parole non ci sono bisogna inventare qualcosa”.

martedì 3 settembre 2013

Oggi la nuova droga è l’azzardo



Gli adolescenti affetti da gioco patologico hanno un uso contemporaneo di sostanze stupefacenti pari al 41,7% rispetto ai loro coetanei. Lo certifica la relaziona parlamentare del Dipartimento Nazionale Lotta alla Droga
«I dati in nostro possesso, provenienti da molteplici fonti indipendenti tra loro, mostrano per le sostanze stupefacenti un trend in contrazione, ma con degli spunti di variazione che riguardano soprattutto le fasce giovanili per droghe quali la cannabis. Tali variazioni devono farci riflettere sulla necessità di adottare nuove forme di prevenzione più precoce e più selettiva per ogni dipendenza, incluso il gioco d’azzardo patologico. La priorità ancora una volta è prevenire precocemente il consumo soprattutto negli adolescenti sviluppando consapevolezza e modelli educativi verso stili di vita sani. A questo proposito preoccupa il calo degli investimenti eseguiti dalle Regioni registrato nel settore dei progetti di prevenzione». Così Giovanni Serpelloni capo del DPA ha commentato i dati presentati nella Relazione Annulae al Parlamento sulle droghe (in allegato la sintesi della relazione).
Gioco d’azzardo patologico e droga
Nel leggere la relazione il dato più allarmante l’azzardo. Si legge nella relazione al capitolo “Gioco d’azzardo e azzardo problematico e patologico” (in allegato), «quanto ai dati sugli adolescenti, per quanto riguarda il gambling si stima, infatti, che nell’anno 2013 (dati ancora più aggiornati) circa 1.250.000 (Studio SPS- DPA 2013) studenti delle scuole superiori di secondo grado abbiano partecipato ad almeno un gioco d’azzardo, con frequenza rilevata di un episodio almeno una volta negli ultimi 12 mesi».
Inoltre, negli studenti tra i 15-19 anni con gioco d’azzardo problematico o patologico, su un grande campione statisticamente rappresentativo di ben 34.483 mila soggetti, si evidenzia che maggiore è lo stadio del gioco d’azzardo, maggiore è il consumo di droghe.
Gli adolescenti con comportamenti di gioco patologico hanno un uso contemporaneo di sostanze stupefacenti pari al 41,7% rispetto ai loro coetanei che non giocano, che presentano invece una prevalenza di uso di sostanze molto più bassa e statisticamente significativa pari a 17,5%. Mentre per gli adolescenti che giocano saltuariamente (gioco sociale) la prevalenza di consumo di droga si attesta al 24.4%. Diversamente per gli adolescenti considerati giocatori un problema la prevalenza del consumo di sostanze è pari al 34,1%. In altre parole, più il comportamento di gioco si fa problematico o addirittura patologico e più cresce anche l’uso di droghe. Tra i giochi più diffusi tra gli adolescenti: Lotterie istantanee, Gratta e Vinci, Win for life, si attestano tra quelli giocati annualmente con una percentuale del 26,4%; seguono Lotto e Superenalotto con il 13.7%.
Il capitolo paragrafo “Gioco d’Azzardo e Policonsumo” sottolinea che «esiste una interessante e preoccupante associazione tra la frequenza della pratica del gioco d’azzardo e il consumo di sostanze, che mostra una correlazione lineare tra le due, sia nella popolazione giovanile (15-19) sia in quella generale (15-64). Il 35,2% degli studenti che gioca ogni giorno o quasi, fa anche uso di sostanze stupefacenti».
Uno schema riassume la situazione italiana

Anche Don Mimmo Battaglia di Fict ha sottolineato il problema spiegando che «è necessario rivedere gli investimenti con strategie di trattamento innovative per poter sostenere un settore che sta morendo e affrontare, a nostro avviso, questioni preoccupanti ed emergenti come il gioco d’azzardo. La dipendenza patologica da gambling connesso all’uso di sostanze stupefacenti è un “dato allarmante” come enuncia la relazione del DPA. Sono anni che noi lo diciamo e oggi non è più un allarme ma un dato di fatto pesante. I dati ci spingono a riflettere sulla necessità di adottare politiche di prevenzione e di cura adatte a contrastare questo fenomeno dilagante con investimenti mirati».
I dati generali
I dati evidenziano che il 95,04 % della popolazione, tra i 15 e i 64 anni, non ha assunto alcuna sostanza stupefacente negli ultimi 12 mesi. Il confronto del trend dei consumi di stupefacenti negli ultimi 11 anni evidenzia un’iniziale e progressiva contrazione della prevalenza dei consumatori di cannabis caratterizzata da una certa variabilità fino al 2008, da una sostanziale stabilità nel biennio successivo 2010-2012, e una tendenza all’aumento nell’ultimo anno.
La cocaina, dopo un tendenziale aumento che caratterizza il primo periodo sino al 2007, segna una costante e continua contrazione della prevalenza di consumatori sino al 2012, stabilizzandosi nel 2013. Per l’eroina si osserva un costante e continuo calo del consumo sin dal 2004, anno in cui si è osservata la prevalenza di consumo più elevata nel periodo di riferimento, pur rimanendo a livelli inferiori al 2% degli studenti intervistati. Negli ultimi anni il fenomeno si è stabilizzato.
L’indagine 2013 sui soggetti tra i quindici e i diciannove anni ha invece sottolineato un lieve aumento di consumatori di cannabis che hanno dichiarato di aver usato la droga almeno una volta negli ultimi dodici mesi. I consumatori di sostanze stimolanti, invece, seguono l’andamento della cocaina fino al 2011, ma negli ultimi due anni si osserva una lieve tendenza alla ripresa dei consumi soprattutto nel nord. Per quanto riguarda la prevalenza del consumo di allucinogeni, si osserva un trend in leggero aumento fino al 2008, seguito da una situazione di stabilità nel biennio successivo, con una contrazione dal 2010 al 2012; nell’ultimo anno,  anche se la popolazione che li utilizza è per fortuna ancora poco consistente, si osserva però una lieve tendenza all’aumento del fenomeno.
Inoltre, focalizzando l’attenzione sui giovani, l’indagine 2013 sulla popolazione studentesca (su un campione di 34.385 soggetti di età compresa tra i 15-19 anni) l’indagine ha rilevato le seguenti percentuali di consumatori (una o più volte negli ultimi 12 mesi): cannabis 21.43%, (19,4% nel 2012), cocaina 2,01% (1,86% nel 2012), eroina 0,33% (0,32% nel 2012), stimolanti metamfetamine e/o ecstasy 1,33% (1,12% nel 2012) e allucinogeni 2,08% (1,72% nel 2012).  L’analisi, quindi, indica in particolare un incremento di 2,29 punti percentuale del consumo di cannabis rispetto al 2012.
Le reazioni
«Non ci ritroviamo nella fotografia che il Dipartimento politiche antidroga ha diffuso oggi presentando la Relazione annuale sull’uso di sostanze stupefacenti e sulle tossicodipendenze», così ha commentato la relazione Riccardo De Facci, responsabile Dipendenze del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA).
«Il Dipartimento», ha precisato De Facci, «continua a mandare messaggi tranquillizzanti per tutte le sostanze, a eccezione della cannabis, che viene indicata ancora una volta come la vera emergenza da affrontare. Un approccio fortemente ideologico e coerente con l’impostazione della legge Fini-Giovanardi, duramente e inutilmente repressiva. A tal proposito lascia stupefatti, sia dal punto di vista scientifico sia da quello dell’esperienza di chi lavora sul campo, la stima di quasi 150mila persone tossicodipendenti per cannabis. È, poi, opportuno precisare che il 5% degli italiani che hanno dichiarato di aver consumato droghe nel 2012 ammonta a circa 3 milioni di persone, un dato che detto così fa un altro effetto. E ovviamente non tutti quelli che consumano sostanze lo dichiarano. La Relazione, inoltre, nulla dice del forte aggravamento delle situazioni che riguardano le persone tossicodipendenti più marginali, per i quali non ci sono quasi più risorse».
«Le conclusioni di questa Relazione», ha concluso De Facci, «nascono dall’approccio su cui è fondata la legge Fini-Giovanardi, che non aiuta a comprendere i fenomeni e a costruire risposte efficaci di contrasto e di aiuto. Chiediamo, perciò, al presidente Letta – a cui è affidata la delega sulle droghe – un cambiamento radicale di rotta che porti a un rafforzamento del sistema di cura, accoglienza e prevenzione invece che a riempire le carceri e affollare le prefetture».
Anche Don Mimmo Battaglia presidente di Fict – Federazione Italiana Comunità Terapeutiche si dice preoccupato di fronte alla relazione. «I dati registrano una riduzione del numero di utenti tossicodipendenti in cura presso i servizi rispetto al passato. 440 mila persone avrebbero bisogno di assistenza (277.748 utenti non risultano essere in cura presso i servizi). La diminuzione degli utenti in trattamento può dipendere dallo stato di crisi che stanno subendo i servizi pubblico e privato?», si chiede il sacerdote. «Oltre ai numeri della Relazione del DPA, ci interessa segnalare che, nella nostra quotidianità, molte persone hanno smesso di chiedere aiuto ai servizi per la carenza di risorse economiche dedicate ai servizi di recupero: liste di attesa ai Sert, difficoltà di ricoveri ospedalieri per la disintossicazione, difficoltà di uscire dal carcere per accedere ai servizi di recupero. Tutti aspetti che aumentano il divario tra i bisogni di trattamento e le risposte date dal sistema integrato dei servizi», aggiunge. «La questione che ci preoccupa maggiormente», conclude Don Battaglia, «è legata ad un progressivo smantellamento dello stato sociale con continui tagli che ha portato ad un impoverimento del sistema delle dipendenze. Si sta verificando nei servizi una diversificazione di risposte nel trattamento tra le comunità del nord e del sud: “nel Nord si resiste con fatica, nel Sud si chiudono i servizi».

martedì 13 agosto 2013

gioco d'azzardo. il contributo di Scientific American



Le irrazionali scelte "umane" del piccione giocatore


Diverse specie animali mostrano comportamenti assimilabili al gioco d'azzardo, commettendo gli stessi errori cognitivi in cui incorrono gli esseri umani. La scoperta che questi errori hanno profonde radici evolutive può aiutare a comprendere meglio i meccanismi alla base del gioco compulsivo
di Sandra Upson


 
Il gioco d'azzardo può sembrare un'attività esclusivamente umana: scintillanti slot machine e croupier in camicia bianca inamidata sono quanto di più lontano dal mondo naturale si possa immaginare. Eppure un gruppo di ricercatori, diretti dallo psicologo dell'Università del Kentucky Thomas Zentall, ha deciso di indagare sul rapporto fra animali e gioco d'azzardo: riuscire a identificare negli animali comportamenti irrazionali, e il gioco d'azzardo è uno di essi,  aiuterebbe infatti a scoprire i meccanismi cerebrali su cui si basano.

Secondo gli ecologi di indirizzo comportamentista, spiega Zentall, gli animali non dovrebbero mai giocare d'azzardo perché nel corso di migliaia di anni l'evoluzione ha affinato in modo ottimale la loro capacità di procurarsi il cibo. Gli animali dovrebbero cioè consumare la minor quantità di energia e di tempo possibili nelle attività che richiedono il consumo maggiore di calorie.

Ma non è sempre così. In una recente serie di esperimenti Zentall e colleghi hanno scoperto che i piccioni a volte commettono gli stessi, comuni errori di ragionamento degli esseri umani. Per esempio, mostrano una forte tendenza a scegliere un'opzione rischiosa al posto di una gratificazione più piccola ma più sicura.

In una versione aviaria di un casinò, alcuni piccioni dovevano scegliere tra un guadagno poco probabile di 10 palline di cibo (contro zero) e un guadagno molto probabile di tre sole palline. (Statisticamente, il valore atteso era di due palline nel primo caso e di tre nel secondo.) In un primo momento, gli uccelli hanno scelto la più redditizia opzione a tre palline, ma nel corso del tempo hanno cambiato strategia, tentando e ritentando di conquistarne 10. La ricerca sui giocatori umani rivela una tendenza analoga: i giocatori compulsivi prestano poca attenzione alle loro perdite, tendendo a ricordare le vincite, ma non la frequenza con cui esse avvengono.



Le irrazionali scelte "umane" del piccione giocatore
© Bob Thomas/Corbis
Altri studi hanno dimostrato che i piccioni cadono preda della cosiddetta fallacia del costo irrecuperabile, proprio come gli esseri umani. Capita di restare a guardare un film molto deludente nella remota possibilità che migliori e compensi così l'acquisto del biglietto, o di perseverare in un cattivo affare sperando che la ruota della fortuna giri. Allo stesso modo, i piccioni continuano a impegnarsi in un compito faticoso per guadagnasi uno spuntino piuttosto che passare, a metà dell'opera, a una attività molto più semplice che porta alla stessa ricompensa. "C'è qualcosa di fondamentale in questa tendenza", dice Zentall. "Non è solo un nostro problema culturale, come per esempio la convinzione che si debba finire ciò che si è iniziato."

La settimana scorsa, in occasione del convegno annuale della American Psychological Assocation, Zentall ha presentato una ricerca sulla versione pennuta di un altro bias cognitivo, quello per cui, euristicamente, "di meno è di più". Quando dobbiamo dare rapidamente un giudizio fra due cose, tendiamo a dare maggior peso alla qualità media delle opzioni che abbiamo di fronte piuttosto che alla quantità complessiva. Così, in un famoso esperimento condotto dallo psicologo Christopher Hsee, i partecipanti erano invitati a valutare due collezioni di stoviglie. Una era composta da 24 stoviglie intatte, l'altra conteneva 31 pezzi in buono stato ma anche nove rotti. I partecipanti tendevano a dare un valore più alto al set più piccolo, anche se la seconda opzione conteneva in realtà un numero maggiore di piatti in perfetto stato.



Le irrazionali scelte "umane" del piccione giocatore
© Markus Botzek/Corbis
I macachi rhesus mostrano un comportamento simile. Anche se una fetta di cetriolo non è il loro spuntino preferito, i macachi gradiscono i cetrioli. Eppure, se si trovano a scegliere fra un chicco d'uva più un cetriolo o solo un chicco d'uva, sceglieranno solo l'uva. Come gli esseri umani, le scimmie sembrano scegliere sulla base della qualità media dell'offerta, piuttosto che sulla quantità. Ciò suggerisce che questa scorciatoia cognitiva abbia radici evolutive profonde.

Ma torniamo ai piccioni. Invece che con piatti o chicchi d'uva, i piccioni hanno avuto a che fare con piselli, che trovano deliziosi, e semi di sorgo, meno appetitosi, ma pur sempre graditi. Di fronte all'opzione fra un solo pisello da un lato e un pisello e un seme di sorgo, dall'altro, gli uccelli hanno scelto il pisello e il seme, comportandosi in in modo apparentemente più razionale rispetto agli esseri umani e alle scimmie.

Per studiare meglio questo comportamento sorprendente, i ricercatori hanno suddiviso i piccioni in due gruppi, per vedere se il livello di fame degli uccelli potesse avere un ruolo. Quando i piccioni erano più affamati, facevano la scelta ottimale, scegliendo il pisello più il seme, ma quando avevano solo un po' di appetito, improvvisamente si comportavano come gli esseri umani, scegliendo il solo pisello. "Se è davvero importante, scelgono la quantità”, spiega Zentall. "Se non sono così affamati, scelgono invece la qualità."

Zentall ipotizza che per tutte le specie possa essere più facile, ossia più veloce, giudicare la qualità che la quantità. Nei piccioni selvatici, perennemente in competizione con i loro compagni pennuti, l'uccello che reagisce più rapidamente alla vista del cibo ha maggiori possibilità di conquistare il boccone. I nostri antenati probabilmente hanno dovuto affrontare pressioni simili.

Ma perché i piccioni a volte sembrano batterci? Zentall suggerisce che la risposta sia la motivazione. I nostri pregiudizi cognitivi non sono regole di comportamento inviolabili, ma tendenze che si rivelano quando si prendono decisioni rapide. Quando gli esseri umani sono sottoposti a test in laboratorio, la posta in gioco è in genere molto bassa. In presenza di una motivazione sufficiente, anche noi diventiamo più propensi a pensare sulla base di uno scenario e a fare la scelta migliore.

(La versione originale di questo articolo è apparsa su scientificamerican.com il 5 agosto. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)

venerdì 9 agosto 2013

VIDEO "FARSI UN CORPO"

Ecco il video "farsi un corpo" che è finalmente anche on-line.
Ricordiamo che il nostro video è stato selezionato come film fuori concorso nell'horcynus film festival.
buona visione a tutti

parte 1: www.youtube.com/watch?v=uPZArtH4jUo

parte 2: www.youtube.com/watch?v=BKZLusex5MI

parte 3: www.youtube.com/watch?v=bx4DIqL3Su4





mercoledì 7 agosto 2013

Integrazione sociale e sport. Il progetto “è solo un gioco, è solo un sogno”


di Christian Broch, educatore, presidente Accoglienza e Lavoro Molteno
Lo sport è uno straordinario veicolo per la socializzazione, per favorire l’inclusione sociale, per accorciare le distanze tra le persone provenienti da ambiti lontani (geografici, culturali, religiosi).
Per quanto mi riguarda, la prima esperienza in questo campo è nata molti anni fa in Trentino, a Mis Sagron uno dei comuni più piccoli e sconosciuti d’Italia, dove ancora oggi la neve non cade firmata. La base è semplice; un canestro appeso ad una recinzione (basso e sgangherato), 2 palloni, un gruppo di bambini di varie età e di varie provenienze, un istruttore.
E’ nato per necessità più che per scelta, era impossibile divedere i bambini per età visto il numero esiguo, era impossibile anche pretendere un campo vero. Quel canestro, quei due palloni ci erano stati dati e con questi occorreva arrangiarsi.
Da queste premesse è nata un’esperienza che è durata parecchi anni e che ha lasciato un segno profondo in chi ha partecipato. Non un segno sportivo, non si sono creati campioni, neppure mezzi campioni. Nessuno ha fatto basket agonistico.
Si è creato Altro. Un gruppo, un gruppo vero.
All’interno di quella comunità locale, si è verificato uno scatto di coesione sociale. A distanza di più di 20 anni, queste relazioni continuano… tra i partecipanti, tra le famiglie dei corsisti.
Ho provato molti anni dopo a replicare lo spirito di questa avventura. E’ avvenuto in una scuola di Giussano che si è mostrata interessata e disponibile alla sperimentazione di qualche cosa di diverso, a provare a dare allo sport una coloritura diversa.
Sono ormai 2 anni che il progetto “è solo un gioco, è solo un sogno” raduna quasi 50 bambini di età, vissuti, provenienze geografiche differenti.
L’idea di base è quella che grazie all’esca del gioco-sport, provare a promuovere e di favorire la socializzazione, la coesione l’inclusione sociale.
Per questo motivo è difficile definire che cosa sia davvero questo progetto e questo perché si muove su una linea di confine, si articola su una zona che si potrebbe definire di prossimità: non è infatti un progetto di sport, non è neppure uno progetto di gioco. E’ tutte e due insieme e allo stesso tempo nessuno dei due. E’ un progetto che ibrida lo sport e il gioco con la socialità.
Un progetto che tenta di annodare singolarità e alterità, nel senso più ampio del termine. Un processo che generi integrazione sociale. Vera.
Questa è la scommessa di questo “sogno”: avvicinare dei bambini e le loro famiglie per sviluppare – attraverso il gioco sport – processi di community care per consentire un’inclusione e una valorizzazione di tutti i soggetti coinvolti. Attraverso un piccolo progetto di gioco-sport si mira cioè a concretizzare alcune linee guida individuate già dalla legge 328/2000 e ribadite con maggior precisione dalla Regione Lombardia nel nuovo Piano Socio-Sanitario.
Il progetto si svolge in tre gruppi di massimo 15 partecipati (si sono saturati in pochi giorni i 45 posti disponibili) all’interno della palestra della scuola elementare per favorire l’accoglienza dei bambini più piccoli.
L’attenzione all’aspetto socializzante e il tenere al livello minimo consentito l’aspetto agonistico consente a tutti i bambini, anche a quelli che trovano poco spazio e fanno fatica ad emergere nelle attività agonistiche o semi-agonistiche di soddisfare il proprio bisogno di scarica motoria in un contesto di competizione bassa, ottimo per non alimentare processi ansiogeni. In questo modo si ha la possibilità di porre attenzione a tutti, anche a coloro che non hanno un talento sportivo eccezionale, ma che come tutti necessitano di momenti di attività fisica.
Per questo motivo il gruppo – diretto dall’educatore – è fortemente impostato per rispondere ad una logica inclusiva, nel quale le specifiche (sia i talenti, sia i limiti) di ogni singolo partecipante dovranno essere inglobate e valorizzate dal gruppo.
All’interno del corso, oltre alle attività di gioco che insegnino i rudimenti della pallacanestro si mettere particolare attenzione al fare sperimentare gli allievi con le regole e le limitazioni sono solo dello sport ma anche della vita di gruppo.
Ogni anno viene steso dal gruppo dei partecipanti, insieme all’allenatore/educatore un regolamento interno al quale tutti si debbono attenere. In questo modo si spinge ogni bambino a portare qualche cosa di sé e di confrontarlo con il resto del gruppo.
Alle famiglie viene chiesto di partecipare in modo attivo ad alcune attività previste: un open day nel quale giocare insieme ai bambini, la preparazione di alcune merende che consentano di scoprire gusti provenienti da culture diverse (cibi preparati da alcuni genitori stranieri), la partecipazione di incontri a tema.
Inoltre grazie alla sensibilità e all’attenzione della Pallacanestro Olimpia Milano i bambini e le famiglie hanno potuto assistere ad una partita di serie A all’interno della scuola del tifo, dove si impara a sostenere la squadra con passione e con la guida di educatori professionali.
In questi due anni i risultati ottenuti a livello di ritenzione nel progetto sono altissimi. Nel corso dell’ultimo anno su 45 iscritti solo 2 bambini si sono ritirati dal corso (uno ha cambiato scuola). I bambini che si portavano dietro le stimmate del disagio scolastico (certificazioni di ritardo mentale, di disturbi dell’attenzione, di iperattività) hanno trovato in questa ambito un momento di sfogo e di “pregiudizio positivo” (come ha scritto bene Gianni Ghidini della Fondazione Laureus); si sono sentiti parte di un gruppo, valorizzati nei loro aspetti positivi, messi al centro di un processo non di cura delle sue pecche, delle sue difficoltà, ma delle sue attitudini, dei suoi punti di forza.
Paradigmatica la storia di R. che in questo contesto ha trovato una sua collocazione, uno suo posto, e che grazie all’aiuto dell’allenatore e dei suoi compagni è riuscito a canalizzare la sua iperattività in campo vedendo migliorato il suo stare in gruppo e poi anche se in misura minore anche il rendimento scolastico.
Il progetto è necessario a D. che con il suo ritardo mentale e i suoi problemi psico-fisici non riusciva a trovare uno sport di squadra nel quale poter stare. Sono 2 anni che partecipa e tutti la ricordano per il suo sorriso non per i suoi limiti, le sue difficoltà.
Così come loro altri bambini e bambini “normali” che hanno aiutato i più piccoli, i più in difficoltà hanno portato a casa tanto da questo progetto… hanno provato che il rispetto, la tolleranza, il vedere il positivo nell’Altro sono cose possibili e belle da vivere.
Nel suo piccolo, questo progetto rappresenta un laboratorio che cerca di restituire ai bambini e alle bambini, la magia del giocare insieme, del confrontarsi e del crescere divertendosi. Si vuole dare loro la possibilità di poter sognare, anche se solo per poche ore la settimana. Sperando che con il tempo qualche cosa resti, qualche cosa si sedimenti e germogli.
Perché lo sport – come ci ricorda Pierre De Coubertin – “è una possibile fonte di miglioramento interiore”.

martedì 6 agosto 2013

the news face of heroin

pubblichiamo un articolo interessante pubblicato su giornale americano mail on line che parla del nuovo modo di usare eroina.


Heroin abuse in the U.S. has skyrocketed in the last five years, and a large share of new users are 18- to 25-year-olds living in suburban or rural environments.
The death of clean-cut Glee star Cory Monteith in July of a heroin overdose shocked fans and shone a spotlight on the new generation of addicts.
Often thought of as the habit of inner-city junkies that faded after its mid-nineties heyday, heroin use is experiencing a terrifying resurgence.
Shock: Fans of Glee were horrified when the clean-cut star of the show, Cory Monteith, was found dead in a hotel room of a mixture of heroin and alcohol toxicity
Shock: Fans of Glee were horrified when the clean-cut star of the show, Cory Monteith, was found dead in a hotel room of a mixture of heroin and alcohol toxicity

The Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA), documented an alarming 80 percent increase in first use of heroin among 12- to 17-year-olds since 2002.
Over the past five years, seizures of heroin in the United States by the Drug Enforcement Administration have gone up more than 50 per cent, from 1,334 lbs in 2008 to 2,059 lbs in 2012.
Heroin use in the U.S. rose an alarming 75 per cent between 2007 and 2011, according to the Substance Abuse and Mental Health Services Administration.
And with heroin use comes heroin overdose.
Caroline Kacena of Naperville, Illinois, lost her son, John, to a heroin overdose on July 23 2012. He was 20 years old.
'He told me he was doing heroin for four months before he knew it was heroin,' his mother Caroline Kacena told CBS.
Suburban teen: John Kacena grew up playing hockey and baseball and was a Boy Scout, before he turned to heroin
Suburban teen: John Kacena grew up playing hockey and baseball and was a Boy Scout, before he turned to heroin

'We were the quintessential American family - baseball, hockey, Boy Scouts,' she said.
'I worked at the local school, so it allowed me to be at home with my kids. I had my summers off. So I did everything right. I did everything I was supposed to.'
Heroin most often kills by causing respiratory failure. An overdoes causes the breathing to slow, and eventually stop entirely. This effect is especially

Public health experts link the surge in heroin abuse to the over-prescription of highly addictive pain medications such as Vicodin and Oxycontin, which act as gateway drugs.
A recent survey by DrugFree.org shows one in four high school students have abused prescription pain medications like Vicodin and Oxycontin, up 33 per cent in just five years.
The widespread abuse of ­prescription painkillers has been on the radar of public health officials and law enforcement officials for years.
In 2009, 257 million prescriptions for opioid painkillers - derived from the opium poppy, like heroin - were dispensed nationwide, almost one per person, according to a 2011 White House report
According to the Center for Disease Control, there has been at least a 10-fold increase in the medical use of opioid painkillers during the last 20 years because of a movement toward more aggressive management of pain.
The euphoric effect associated with opioids has led to misuse and abuse of the widely available drugs.
New generation: Cory Monteith joined a long line of tragic heroin-overdose deaths among young and talented people, including River Phoenix, Janis Joplin and Jim Morrison
New generation: Cory Monteith joined a long line of tragic heroin-overdose deaths among young and talented people, including River Phoenix, Janis Joplin and Jim Morrison

In 2007, the number of deaths involving opioid analgesics was 1.93 times the number involving cocaine and 5.38 times the number involving heroin.
Pill-popping: Almost one prescription for drugs like Oxycontin are dispensed each year
Pill-popping: Data shows that legal pain medications such as Oxycontin are gateway drugs for heroin

Cory Monteith’s battle with drug addiction began, like so many heroin addicts, in his teen years.
Monteith underwent rehabilitation for heroin addiction as a 19-year-old, south treatment again in April of this year.
Susan Foster, vice president of CASAColumbia, a substance-abuse research center at Columbia University in New York told the Christian Science Monitor that 95 per cent of addictions start with substance abuse in the teen years.
In 2010 Purdue Pharma brought a new, more difficult to abuse form of Oxycontin onto the market. The pill could no longer be crushed for snorting or dissolved for injecting, and took longer to act.
The demand for prescription painkillers meant that their street value went way up, to up to $80 a tablet, according to law enforcement agency data.
On the other hand, heroin costs just $10 a bag.
In a study published in 2012 by the New England Journal of Medicine, 66 per cent of Oxycontin addicts moved on to heroin after the reformulation of the drug.
John Kacena and his friends grew up close, playing baseball, hockey and joining the scouts together. They began using heroin together in their freshman year of high school.
At the time of his death, Kacena had been clean for a few weeks and had spoken about going to college.
'I woke up in the morning,' Kacena told CBS of the July day John Kacena died.
Cheap habit: In contrast to prescription painkillers, a bag of heroin has a street value of about $10
Cheap habit: In contrast to prescription painkillers, a bag of heroin has a street value of about $10

'I opened up his door. And I found my son sitting up in his bed, cross-legged, but slumped completely over. I could tell the moment I opened up the door by the position that he was in that he was already gone.'
Caroline Kacena has been lobbying for changes that could help save someone else's son or daughter.
Kacena wants a nationwide 'Good Samaritan law' that would mean anyone with a person who's overdosing could call 911 without fear of arrest.
Another change Kacena is calling for is to make Naloxone, a drug that can neutralize the effect of heroin and avert an overdose, available over-the-counter.
Public health officials hope the reigning-in of prescription drugs will prevent future addiction and consequent shift to heroin use.
In the meantime, a new generation of heroin addicts has emerged, and only time will tell what their futures hold

Read more: http://www.dailymail.co.uk/news/article-2385041/The-new-face-heroin-Affluent-teenagers-suburbs-taking-heroin-alarming-numbers.html#ixzz2bAefsh2G
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giovedì 1 agosto 2013

Perde l’azienda giocando a videopoker e deve licenziare 10 dipendentI: ECCO PERCH' DICIAMO NO SLOT


TREVISO – La sua azienda aveva cominciato ad andare male, colpita come molte altre dalla difficile congiuntura economica. Solo che lui anzichè rimboccarsi le maniche ha preferito confidare nella fortuna, ed in particolare nei videopoker. Sperando in questo modo di risolvere i suoi problemi e risollevare le sorti della sua piccola azienda. Così alla fine ha speso ogni centesimo, facendo fallire l'azienda e mettendo in strada dieci dipendenti. Quella dell'imprenditore di un Comune dei dintorni di Treviso è solo una delle tante storie approdate al Servizio dipendenze dell'Usl di Treviso. «Cercava di risolvere i problemi e di risollevare i bilanci dell'azienda giocando – ha spiegato il primario del Sert, Germano Zanusso – ma ha speso tutte le riserve che aveva a disposizione». Un'escalation che non ha permesso, al suo arrivo al Sert, di porre rimedio ad una situazione già compromessa. E ad aggravare i casi, come registra l'Usl, ci sarebbe proprio la crisi che spinge chi è già in difficoltà a spendere le poche monete che rimangono per scommettere sulla possibilità di sistemarsi per sempre. Ma mentre nei giocatori matura la convinzione di poter agganciare vincite facili, il Sert di Treviso dal 2009 ad oggi continua ad avere un incremento esponenziale di pazienti. Numeri impressionanti passati in meno di cinque anni da 4 a 92. A finire stritolati dall'azzardo nella convinzione prima di sistemarsi per sempre, poi solo di ripianare il buco creato con il gioco, non ci sono solo gli imprenditori, ma anche le madri di famiglia. «Il caso che mi ha colpito di più è quello di una mamma arrivata a rubare dal salvadanaio della figlia – continua Zanusso – per giocare. Proprio quando la figlia l'ha scoperta ha capito che quella passione e quel brivido erano diventate una patologia ed ha deciso di rivolgersi a noi».

mercoledì 31 luglio 2013

Sulla cosiddetta responsabilità, infine. (parte 3)

 

di Angelo Villa, psicoanalista, Direttore scientifico Accoglienza e Lavoro


Antigone e il contrabbasso – Occorre, dunque, distinguere, separare. Isolare l’enigma del limite dalla sua degenerazione moralistica, pena altrimenti, come si suole dire, gettare via il bambino assieme all’acqua sporca. Va da sé, inoltre, che anche un fugace accenno a una simile questione si trascina immediatamente appresso una tematica non poco ingombrante e fonte inesauribile di imbarazzo, quella della colpa. Argomento scandaloso che sarebbe tuttavia inopportuno trascurare o, ma al fondo è lo stesso, considerare come espressione di uno stato d’animo al quale dovrebbe esser negata ogni legittimità psichica. Come se il problema fosse la colpa e non quel che la genera.
Lo psicologismo ha prodotto non poca confusione, in proposito. Spesso ha lasciato intendere come il sentimento di colpa costituisse un problema in sé, in quanto causa di un disagio nel soggetto. La cultura della colpevolizzazione, tipica degli anni passati, è stata così progressivamente sostituita da quella della de-colpevolizzazione, una sorta di ideologia dogmatica insieme, in grado di coniugare i furori deliranti nicciani con le astruse vaghezze libertine rivedute e rilanciate in chiave “new age” . In questo caso, il passaggio dal modello asfissiante della colpevolizzazione a quello apparentemente opposto della de-colpevolizzazione è servito a evitare una ponderata riflessione sul significato e sul valore della colpa come dato strutturante il funzionamento psichico del soggetto, nel suo rapporto con sé stesso non meno che con gli altri. La cifra patologica dell’eccesso che, ora in un senso, ora in un altro, si determina abitualmente attorno ad essa, ha infatti ostacolato tale processo, privilegiando la ricerca di una sorta di ipotetico punto d’equilibrio tra i due suddetti estremi, questione puramente immaginaria. E’ rimasto così in ombra il nodo della colpa o del Super-Io freudiano come accadimento psichico, misterioso e necessario, che, insisto, è né più né meno la problematica stessa dell’essere del soggetto in quanto tale, clinica ed etica nel contempo. La colpa, infatti, designa l’insieme di quel che accade nello psichismo del singolo come ritorno del suo manifestarsi soggettivo, nelle azioni o anche solo nell’intenzionalità. Supporre di vanificarla comporta implicitamente il pensiero di dissolvere il soggetto stesso, scorporando il suo essere o la sua mancanza a essere dalle conseguenze del suo proprio esistere, del suo porsi in atto. La colpa, al contrario , unisce l’uno all’altro nell’esatta misura in cui tiene in gioco, dietro ad essa, la memoria inconscia della relazione asimmetrica che il soggetto ha intrattenuto, in precedenza, con le persone che lo hanno accudito.
Una traccia dell’altro, un atteggiamento della madre o del padre o di quelli che Freud chiama come i (“genitori) della propria preistoria personale” , è “entrata” nel soggetto, costituendolo e , col medesimo atto , dividendolo. Un’operazione che si rinnova costantemente nell’incontro con gli altri, nelle differenti occasioni che la vita crea. Anche, e non a caso, nell’approccio con il disabile.
Si può considerare, sotto questo profilo, lo stretto rapporto che tradizionalmente salda l’insorgere o il perdurare della colpa con il rendersi presente dello sguardo di un altro, prima ancora della sua parola. Per quanto, nello specifico, poi attiene l’handicap, un simile legame si è spesso mostrato nelle sue forme più estreme, nefaste e paradossali. Le pratiche di segregazione o di eliminazione dei disabili hanno reperito e tutt’ora reperiscono un loro tratto fondante nell’azione violenta di soppressione di quel che segnala il palesarsi del soggetto : il suo sguardo. Sopprimere il suo esserci è , in primo luogo, cancellare il suo sguardo, far sì che non compaia, evitando in questo modo che nasca un interrogazione colpevolizzante per l’individuo sedicente normale. I muri di molte strutture per handicappati hanno sempre svolto questa funzione: rendere non visibile il disabile agli occhi del normale, in modo che il suo sguardo non incrociasse quello di quest’ultimo, rammentandogli la propria sventurata esistenza, richiamandolo a un principio di responsabilità nei suoi confronti.
Non senza ovviamente passare per il tramite dell’unico elemento in grado di stendere un filo di collegamento tra lo sguardo del disabile e l’atteggiamento respingente del “normale”: il fantasma della colpa. Comunque la si interpreti, tenendosi a debita distanza dalla esasperazioni sado-masochistiche che possono accompagnarla, non è forse per la sua via che l’ombra dell’altro, il sentimento del suo stare nel mondo come essere umano si affaccia alla coscienza di chi gli sta accanto? Non più solo un corpo, un’etichetta, una categoria… Ma un umano tra gli umani, come tale riconosciuto nella e dalla comunità civile. Il dato clinico caratteristico della psicosi e della perversione, cioè di quelle patologie gravi che hanno necessariamente alla base l’invalidazione del riferimento simbolico all’Edipo, è quello inerente il processo di oggettivazione dell’altro, la sua riduzione nel senso letterale del termine a puro oggetto di godimento, a feticcio da utilizzare a proprio esclusivo piacimento, arida metonimia di quel che era il rapporto incestuoso con la madre.
La colpa, in quanto erede funzionale del Super-Io freudiano, isola un crocevia non aggirabile dove si dispone la questione del soggetto, come si è detto, indissociata da quella del suo rapporto con gli altri. Piaccia, o meno. La delicata questione della responsabilità ne dipende, di conseguenza. E’ per questo che, al fondo, le eventuali linee di fuga dal tema della colpa producono in genere un effetto boomerang che si ritorce sull’individuo medesimo.
L’ innegabile esistenza di altre istanze psichiche o di differenti moti affettivi non possono eludere la strettoia che la problematica inerente alla colpa istituisce come un passaggio obbligato, indispensabile nell’essere di un soggetto. Piuttosto, vi si aggiungono, vi s’intrecciano, vi convivono, interagendo con essa, in maniera spesso conflittuale. E’ , in definitiva, quel che accade con quella beanza che ha nome desiderio e che con la colpa, come è immaginabile, instaura una relazione contorta, ben poco lineare. Parlando di disabilità, ci sembra un argomento non sottovalutabile.
La responsabilità non coincide sempre o obbligatoriamente con il desiderio , può anche darsi che, in parecchi casi, le faccia da indispensabile e prosaico contrappeso. Il desiderio privilegia un orizzonte che mobilita la mancanza a essere del soggetto, la sua intenzionalità e l’oggetto attorno al quale si organizza. La responsabilità può, al contrario, apparire come associata al manifestarsi di un appello al soggetto, un richiamo o un invito anche controvoglia o in opposta tendenza a quei desideri che lo porterebbero invece da tutt’altra parte. Il desiderio comporta anch’esso una responsabilità, Lacan ne sottolinea il significato per l’esistenza del singolo, assegnandogli un valore etico. La grande colpa di cui il soggetto potrebbe macchiarsi sarebbe infatti, agli occhi dello psicoanalista francese, proprio quella di aver ceduto su questo punto, di aver lasciato che il suo desiderio man mano si stemperasse nel campo della vaghezza immaginaria sino a reperire un facile conforto nel rimorso per l’occasione perduta. Ciò non suppone tuttavia, insisto, che una responsabilità comporti un desiderio. Può darsi che, a questo proposito, non suoni affatto fuori luogo un passo del commento del Pirqé Avot (Il trattato dei padri) che così recita: “non ti è imposto di compiere l’opera nella sua totalità , ma non sei libero di sottrarti totalmente” 1 .
Può , in tal senso, il desiderio prestarsi a indicare una possibile sottrazione da una responsabilità che non sia quella prescritta dal desiderio stesso? Nel suo seminario sull’etica, Lacan propone il personaggio di Antigone , protagonista dell’eponima tragedia sofoclea, come esemplificatrice di una testimonianza radicale nel senso proprio della mancanza a essere. Riassumiamone rapidamente la vicenda: il nuovo re di Tebe, Creonte, ordina che il corpo di Polinice, fratello di Antigone, rimanga insepolto. Polinice che aveva guidato un attacco poi fallito contro la città è considerato un traditore della patria. Mentre la sua timorosa sorella, Ismene, si fa da parte, Antigone dichiara orgogliosa che si atterrà alle leggi divine della pietà e cerca per due volte di dare una sepoltura al fratello. Sorpresa dalle guardie, Antigone è condannata a morte. Dopo le ammonizioni dell’indovino Tiresia, Creonte ha un ripensamento. Troppo tardi, ormai. Antigone si è impiccata. Creonte si sente solo e disperato, maledice sé stesso e invoca la morte.
Dramma complesso e ricco di più risvolti problematici di quanti potrebbero appare a prima vista. Hegel stesso , a suo tempo, metteva in guardia lo spettatore davanti a una lettura eccessivamente manichea dell’intera storia. Come se Creonte incarnasse il male e Antigone, il bene. La figura dell’eroina sofoclea non ha tuttavia cessato di affascinare , nei secoli, autori differenti che ne hanno fornito rappresentazioni spesso contraddittorie tra loro, si pensi a Brecht e a Anouilh, capaci di mettere in luce i tratti paradossali del personaggio.
Desiderio e morte si saldano tra loro nella triste vicenda della figlia di Edipo, l’interpretazione lacaniana lo sottolinea con forza, influenzata com’ è dalla speculazione metafisica heideggeriana. Il desiderio portato alle sue conseguenze estreme sfocia o , comunque, risolve la vita nella morte che così assicura all’esistenza un senso. Determinata, inflessibile, Antigone avanza in quella che Eliot designerebbe come una “wasted land”, una terra di nessuno, come dice Lacan: lei “porta fino al limite il compimento di ciò che si può chiamare il desiderio puro , il puro e semplice desiderio di morte come tale. Questo desiderio lei lo incarna.” 2 Non a caso uno psicoanalista e allievo del maestro francese come Giacomo Contri accosta la psicologia di questo tragico personaggio a quello dell’integralismo fondamentalista. Recalcati, da parte sua, marca giustamente le differenze : “Il terrorista nella sua furia fondamentalista, usa la morte per seminare terrore e realizzare l’utopia funesta della realizzazione della Causa, mentre Antigone accetta innanzitutto la propria morte…. Antigone non ammazza, non elimina l’impuro, ma assume su di sé il peso della sua scelta singolare” 3.
Sia come sia, la morte appare come un destino inevitabile che proietta la sua inquietante ombra sullo sviluppo dell’intera vicenda di Antigone. Figlia d’un incesto, lei si candida spontaneamente a seguire la sorte del fratello, un cadavere che se aggiunge a un altro, ostentando indifferenza, quando non disprezzo, per l’amore e per il domani. Nella disabilità, la morte o , per lo meno, il suo fantasma si presenta sin da subito, come un doppio dell’esistenza stessa. Un trauma duro da rimuovere, un tormento interiore reticente ad andarsene, o , anche solo, ad allentare la presa. Il caso di Michele lo mostra in maniera paradigmatica. Morte annunciata, morte incastrata nella vita stessa, oppure, in altre situazioni, morte psichica: abisso al quale è sottratto un fondo, a meno di non denominarlo rassegnazione, dove vanno a infrangersi le illusioni narcisistiche dei “normali” in attesa di poter risorgere altrimenti, una volta passate al setaccio della castrazione. Diverse associazioni di genitori di figli disabili recano esplicitamente nel loro nome o in quello dei progetti che organizzano un richiamo “al dopo di noi” che assegna una connotazione escatologica alle loro iniziative. Si tratta di una formula efficace che, per l’appunto, è chiamata a prendere di petto il tema della morte, bussola che orienta la questione della responsabilità. S’intuisce lo scenario che prefigura. La scomparsa del familiare ha come prevedibile effetto quello di condannare il figlio, magari divenuto adulto, all’indigenza o alla trascuratezza da parte degli altri. Come se, insomma, il venir meno dei familiari anticipasse, di conseguenza, il palesarsi di un peggioramento delle condizioni di vita per l’individuo portatore d’handicap, quasi fosse un’anticamera a una sua prossima e prevedibile dipartita, dalla vita o, anche, nella vita.
I familiari, ma non solo loro, viaggiano lungo un crinale sottile, quello che separa la vita dal suo svuotarsi, dal suo ritornare all’inanimato o al caos. Si dirà tuttavia che anche la loro azione, e dunque la loro etica, risponde a un desiderio. E, quindi, non a un meccanico e asfissiante imperativo sociale, moralmente ambiguo. Se dipendesse solo da quello, l’insieme mal funzionerebbe e per primo l’atto stesso ne risentirebbe, gravandosi di un peso che lo renderebbe inautentico, costrittivo.
Freudianamente, il desiderio si configura come caratterizzato dal ritrovamento di un oggetto, in precedenza perduto, mediato per il tramite delle costruzioni fantasmatiche inconsce. Alla lettera, per l’appunto, il ritrovamento è un trovare, di nuovo. Ciò assegna al desiderio una doppia figura, quella cioè di apertura, di slancio in avanti, ma altresì di recupero, seppur in una forma parziale e diversificata, di quel è andato inevitabilmente perso. E’ il motivo, al fondo, che permette di poter coglierne la sua declinazione lungo una linea di sviluppo anche potenzialmente evolutiva, nel passaggio da una fase a un’altra, da un oggetto a un altro e così via.
Accade ,tuttavia, che la vita riservi spesso l’incontro con perdite tanto improvvise quanto inassimilabili, traumi adialettici o mutamenti sconvolgenti, come ricorda lo stesso Freud in parecchi testi. O, forse, anche più semplicemente, incombenze che l’esistenza pone dinnanzi agli individui e che domandano a quest’ultimi di rinunciare a quel narcisismo che, comunque, il desiderio veicola.
Contrapporre il desiderio al sacrificio presuppone uno schematismo fuorviante e di cui, per altro, Antigone non incarna la figura più nitida a riguardo. In un breve racconto dal titolo “ Perché uccidere il contrabbasso?” 4, lo scrittore scandinavo Stig Dagerman racconta la storia di un uomo che nutriva una grande passione per il contrabbasso. La nascita di un figlio, desiderato da tanto tempo, “anche se non ne avevano mai parlato “ 5 , finisce per porre il musicista davanti a una drastica scelta, un aut aut che non concede tregua. O il contrabbasso o il bambino. In estrema sintesi: o il desiderio o …
Saggiamente, Dagerman fa notare la necessità per il genitore di far sua “ l’arte di trovare un equilibrio” che gli consenta di non rinunciare né al contrabbasso né al bambino (o , più precisamente, al suo essere padre) , ipotizzando che , in futuro, ad esempio, l’adulto possa far conoscere al figlio il suo desiderio, introducendolo così al suo mondo. Soluzione indubbiamente condivisibile, capace di smorzare il rigido antagonismo tra desiderio e sacrificio, tra la dedizione a un proprio interesse e il sacrificio masochistico al servizio della domanda degli altri, ma non del tutto convincente. La complementarietà, così come l’idea di un’equa mediazione, nutrono entrambi l’utopia seducente di una pacificazione, quello, cioè, dell’addomesticamento della perdita o della sua regolata gestione.
La realtà è più semplice o, probabilmente, più dura e intransigente. Complice del caso, essa dispone del potere immenso di far saltare equilibri, spesso conquistati a fatica. Ciò finisce per collocare spesso il singolo individuo davanti a scelte che occorrerebbe scrivere virgolettate nella misura in cui si costituiscono in stretta conseguenza ad eventi che il soggetto subisce, in un modo o nell’altro. Episodi, situazioni che possono mutare radicalmente il corso della sua vita e che, per ritornare al Super-Io freudiano, costringono una persona a fare i conti con il non voluto, e quindi con una dimensione economica psichica anti-narcisistica, anti-incestuosa. Scelte del genere assumono il valore di una risposta con la quale il singolo prende , di fatto, una posizione, inevitabilmente soggettiva, nei riguardi dell’accadimento oggettivo che lo coinvolge, ben oltre il suo desiderio. Da quel momento in poi, la sua vita è sollecitata a imboccare un’altra direzione, potenzialmente capace di assorbirla per intero. La “scelta” rappresenta così la risposta, insisto su questo termine, a una chiamata: dinamica che mi sembra presieda adeguatamente a un principio di responsabilità che non può non includere l’altro allo stesso titolo che sé stessi. Vivere è convivere, comunque. L’inferno sono gli altri, sentenziava un personaggio teatrale sartriano. Frase celebre, troppo roboante per non essere falsa, troppo esagerata per non essere vera. Un antidoto salutare al sentimentalismo mieloso e ipocrita. Evidentemente, però, non basta…
Fuor di ogni retorica, la responsabilità o quel che si presenta sotto quel nome declina la matrice di un sintomo che , per un verso, tende a stringere e , per un altro, tende ad allentare il rapporto con l’altro, traducendo e tradendo il manifestarsi, per l’appunto, di una risposta a fronte dell’emergere di una presenza, al dispiegarsi di un incontro . In quanto sintomo, per eccellenza umano, accettato e assunto, messo in parole e in atti, la responsabilità è altro dal rigetto, dall’ideale, dal sacrificio e, come si è detto, dal desiderio “tout court” cui non invidia, di certo, la dignità. Forse, per tornare al caso di Lara da cui siamo partiti, è incominciare a stare lì, impresa per la verità non sempre delle più agevoli, al suo fianco. Con lei, evitando di mettersi al suo posto. Accettando così il prezzo amaro che la sua disabilità richiede, quello cioè di sperimentare una comunicazione frammentata, incompiuta, il più delle volte in grado di mettere a dura prova un processo minimale di comprensione. Tocca al cosiddetto normale, e a chi se no?, prodigarsi per far esistere quel dono del dire che l’handicap ha mutilato. E’ un modo per guardare in faccia il tragico assicurandogli una rappresentazione, non obbligatoriamente depressiva, che tessa la trama di un legame, sbilanciato e paradossale quanto vogliamo, attraverso il quale una socialità può prendere forma. L’unica che sappiamo produrre, l’unica nella quale le nostre vite possono trovare un respiro, un’ansia civile che non le soffochi.
1) AA.VV. – Commentaires du Traité des Péres (Pirqé Avot) – Verdier, Paris, 1990, p. 121
2) Jacques Lacan- Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 – Einaudi, Torino, 1994, p .356
3) Massimo Recalcati – Ritratti del desiderio – Raffello Cortina, Milano, 2012, p. 150
4) In Stig Dagerman – Perché i bambini devono ubbidire? – Iperborea, Milano, 2013, p. 43-49
5) “… In realtà non avevano mai parlato di niente, lui suonava e lei ascoltava…” , idem, p. 43