lunedì 28 ottobre 2013

Casate Online - Molteno: Silvano Ratti premiato con il ''coroldino d'oro''

Una bellissima serata organizzata dai nostri amici dell'Associazione L'Arco che ha premiato uno dei nostri imagnifici volontari.
Grande Silvano, ti vogliamo bene!!!!!!! 

Molteno: Silvano Ratti premiato con il ''coroldino d'oro''


Si è svolto a Molteno l'atteso appuntamento della seconda edizione del Coroldino d'oro, il riconoscimento che viene assegnato, con il patrocinio del comune, dall'associazione Arco ad un cittadino che si è saputo distinguere per la sua fervente attività di aiuto verso il paese.
"Ci ritroviamo anche quest'anno in occasione di questa importantissima ricorrenza per sigillare la recente solidarietà tra la Cittadinanza di Molteno, l'Arco e la Comunità Accoglienza e Lavoro di Coroldo. Quindi oggi abbiamo scelto di premiare una persona che sia simbolo di questo nuovo connubio" ha spiegato il presidente dell'associazione Patrizia Dell'Oro prima di svelare l'identità del premiato. Si tratta di Silvano Ratti, moltenese dalla nascita e "da diversi anni impegnato ad aiutare tutti ma in special modo gli ospiti della comunità Accoglienza e Lavoro sempre con grande generosità e costanza". Questi i motivi che hanno portato alla scelta.
Silvano Ratti tra il sindaco Mauro Proserpio e Patrizia Dell'Oro dell'associazione Arco

La benemerenza è andata dunque a questo cittadino che opera da sempre al servizio delle persone bisognose e che, per approfondire questa sua vocazione, si è recato spesso fuori dall'Europa, dove è entrato in contatto con un'altra realtà e cultura, quella africana.
Silvano Ratti, terminati gli studi, ha cominciato ad esercitare la professione di falegname nella bottega di Livio Cazzaniga, un artigiano di Barzanò che tramanda al proprio allievo la passione della pittura. Nel 1989, Livio convince Silvano ad accompagnarlo nella missione di Matiri in Kenya per aiutarlo nella decorazione della loro chiesina appena rinnovata. In questi luoghi Silvano ha conosciuto la povertà e la miseria, ma l'Africa, nonostante il triste lato della sofferenza, entra per altre mille ragioni nel cuore delle persone che la visitano e non ne esce più. Da quella prima volta ha trascorso, quasi ogni anno, almeno un mese per aiutare la missione, insegnando ai ragazzi il lavoro di falegname ed eseguendo lavori di ogni sorta.
Nel frattempo a Molteno si è formata l'Associazione Pensionati Moltenesi, che ha avviato una serie di servizi per il Comune e un nuovo rapporto con la Comunità Accoglienza Lavoro di Coroldo. Silvano si è da subito distinto per la sua collaborazione. Questa sua generosità è stata formalmente riconosciuta attraverso la cerimonia che si è tenuta venerdì 26 ottobre. Dopo la proclamazione, i presenti hanno proseguito la serata allietati da musica e balli.

tratto da: www.casateonline.it

 

mercoledì 23 ottobre 2013

Ascoltare non basta


di Simone Feder, psicologo casa del giovane di Pavia

Il mondo che vivono i ragazzi oggi non l’hanno costruito loro, è il frutto di ciò che noi adulti abbiamo realizzato per loro.
La nostra è l’ultima generazione ad aver obbedito ai genitori e la prima ad obbedire ai figli. È forse questa la colpa del tanto disagio giovanile di oggi?
Abbiamo cercato in tutti i modi di confondere i ruoli, diventare amici dei nostri figli cercando di comprendere ad ogni costo i loro problemi, abbattere il più possibile le differenze per avvicinarci sempre più al loro mondo irraggiungibile.
Il risultato: abbiamo giovani con poche certezze e tanti dubbi, mancano di regole e di “spina dorsale”.
Quali proposte facciamo loro? Oggi gli adulti faticano a porsi al fianco dei giovani, ad approcciarsi a loro, e non riescono ad essere delle presenze discrete e dei solidi punti di riferimento, ad accompagnarli alla scoperta della vita. E così Pinocchio, invece di diventare un ragazzo vero, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il paese dei balocchi.
Molti di questi nostri ragazzi soffrono e faticano a crescere perché non hanno alternative! ‘Non c’è altro da fare’ è per questo che poi fanno indigestione di “sballo”, di esperienze ai limiti, ricercando nei loro stessi coetanei quelle sicurezze che non possono dare e che dovrebbero ricevere dagli adulti.
E’ sempre più bassa l’età in cui i ragazzi fanno uso di sostanze alcoliche o stupefacenti, non esistono “posti” o locali che possano ritenersi sicuri da questo punto di vista. I traguardi diventano il divertimento e il godersi la vita e le responsabilità non vanno più di pari passo con la maggiore libertà che, giustamente, l’età dell’adolescenza richiede. E tutto ciò porta ad acuire la loro sofferenza, il loro non accettarsi, l’insicurezza.
E’ importante dar luoghi sicuri all’interno dei quali sentano accolte queste loro difficoltà e capiti i loro bisogni, spazi dove dar loro ascolto nelle scuole e nei posti di aggregazione. Non semplici ‘sportelli di sfogo’, ma luoghi dove trovare risposte per progettualità concrete e proposte realizzabili, che partano dalle risorse interne all’individuo e del proprio territorio.
Non possiamo limitarci ad ascoltare, non basta! Dobbiamo mirare alla promozione sociale e allo sviluppo personale del singolo individuo, incentivando le persone a costruire da sé le proprie qualifiche e le risposte ai bisogni, offrendo spazi e laboratori in cui possano creare ciò di cui hanno bisogno rendendosi protagonisti del loro cammino di crescita.
I giovani devono poter intravedere il modo non solo di mettere in discussione fino in fondo il loro stile di vita, ma anche di prefigurarsi delle ipotesi concrete di cambiamento, respirare e conoscere quell’”alternativa” essenziale per abbandonare definitivamente i loro schemi e diventare così consapevoli di sé, delle proprie scelte, delle proprie emozioni e del mondo che li circonda, soggetti d’esperienza e protagonisti attivi della propria vita.
I tanti anni a contatto con il mondo del disagio ci portano a dire è necessario radicare in profondità nuovi criteri, nuovi valori, nuova spiritualità che portino il giovane a conoscere, individuare, accettare e verificare nuove modalità di essere.
Il nostro deve diventare soprattutto il tempo della responsabilità e dell’investimento a lungo termine. Ritengo questa la vera strada della prevenzione.

venerdì 4 ottobre 2013

L’arte della cura


di Luca Ciusani 

L’associazione tra la genialità e la sregolatezza è entrata da tempo ormai immemore nel immaginario collettivo. Questa immagine sembra associare la figura dell’artista ad una personalità ed ad uno stile di vita fuori dal comune, eccentrico, spesso bizzarro.
A riguardo ogni disciplina artistica può vantare esempi illustri. Solo per citarne alcuni si pensi a Van Gogh che si amputò un orecchio e lo spedì per posta all’amico Gauguin o a E. A. Poe che visse una vita contraddistinta da eccessi d’alcool, droghe e ricoveri negli ospedali psichiatrici.
Stando invece all’interno dei nostri confini voglio citare la grandissima poetessa Ada Merini della cui vita,segnata dall’esperienza dell’ospedale psichiatrico, scrisse pagine di rara bellezza e Carmelo Bene, definito uno dei più poliedrici artisti della storia del teatro mondiale, che definì la sua esistenza “un capolavoro, uno schiaffo in faccia alla vita mediocre e puttana”.
In ambito musicale, dal blues, al jazz, al rock, al rap la lista di esempi è pressoché infinita. Robert Johnson, uno dei più grandi blues-man di tutti i tempi, era convinto di aver stretto un patto con il demonio, il jazzista Charles Mingus durante un concerto con Duke Ellinton rincorse il suo sassofonista con un’ascia perché non era soddisfatto del suo modo di suonare. Per non parlare degli eccessi delle rock star guidate dalla nota triade sesso-droga-rock&roll.
La letteratura di matrice psicologica, ma non solo, ha molto interrogato il legame tra follia e creazione artistica. Le diverse teorie e spiegazioni, nonostante le diversità spesso marcate, concordano su di un punto,vale a dire che l’arte è uno strumento che l’artista utilizza per esprimere qualcosa di sé che altrimenti rimarrebbe inespresso.
Questa osservazione, a mio giudizio incontrovertibile, necessita di una specificazione che riguarda lo statuto dell’opera, del prodotto del lavoro di creazione. Partendo dal presupposto che esso esprime qualcosa dell’artista, a mio giudizio questo può avvenire secondo due logiche distinte. La prima è che l’opera risponda alla volontà dell’artista di esprimere un pensiero, di denunciare un fatto, di sostenere un’idea; nella seconda l’opera è un “sostituto” dell’artista, un vicario che ne fa le veci, come se attraverso l’opera l’artista potesse mostrarsi a se stesso e al mondo.
Benché la differenza tra le due prospettive sia spesso sfumata, anche per via dell’interpretazione che critica e pubblico possono dare delle opere, credo sia utile porre questa distinzione per cogliere la diversa posizione dell’artista nei confronti dell’opera: nel primo caso l’opera è uno strumento, un mezzo che l’artista utilizza per raggiungere uno scopo; nel secondo la produzione artistica è una via, in alcuni casi una necessità,per poter esistere. Questa seconda prospettiva è quella di maggior interesse nel rapporto tra arte e cura.
Bisogna fare anche un’altra considerazione, se è vero che esiste un rapporto stretto tra produzione artistica e follia, è altrettanto vero che la seconda non garantisce della prima, in altre parole non tutte le persone sofferenti sono degli artisti,ça va sans dire.
Ci sono modi in effetti molto meno raffinati per trattare il proprio malessere, ad esempio l’utilizzo di sostanze quali l’alcool o la droga. Frequentemente le biografie degli artisti sono contrassegnate da eccessi di questo tipo. Questo va interpretato, a mio giudizio, come una conferma della sofferenza soggettiva sperimentata da queste persone. L’idea che le sostanze psicoattive possano sviluppare le capacità artistiche,aprire le porte della percezione come scrisse Haldous Huxley, è infatti smentita dai fatti.
Più realisticamente le biografie di molti artisti mostrano che l’utilizzo di sostanze distrugge l’artista più che farlo progredire nella sua produzione. In altre parole ciò che lega la produzione artistica e la sregolatezza degli stili di vita di alcuni artisti è il malessere soggettivo.
Senza forzare troppo il discorso si può anzi pensare alla produzione artistica come una sorta di cura al loro malessere esistenziale. In questo senso la via dell’arte è modo, piuttosto elitario, per esprimere e quindi indirettamente curare il proprio disagio.
Questo pensiero è ciò che sta alla base di un lavoro di cura che svolgiamo all’interno della comunità di recupero per tossicomani e alcolisti gestita dalla Cooperativa Accoglienza e Lavoro di Molteno.
Dal 2007 all’interno della struttura sono stati attivati una serie di laboratori espressivi, di cui il Lab-Art (Laboratorio Artistico) è colonna portante.
L’idea di fondo è che attraverso un canale espressivo alternativo alla parola, si possa dar voce a quel disagio,a quella sofferenza muta che il soggetto sperimenta e alla quale, durante il corso della sua vita, non ha saputo porre un rimedio diverso dalla completa estraniazione prodotta dall’utilizzo di droghe o alcool.
Ci si potrebbe chiedere perché si rende necessario un canale espressivo alternativo alla parola, in fondo, da Freud in poi, la cura del disagio psichico si lega indissolubilmente all’utilizzo della parola. La risposta è da ricercarsi nella gravità del disagio che si deve affrontare. La tossicodipendenza pone infatti, sia il soggetto afflitto da questa patologia sia il curante, di fronte al fatto che la parola si mostra spesso impotente.
Chi ha esperienza nella cura della tossicomania sperimenta che frequentemente il discorso che porta il tossicomane si configura come vuoto o stereotipato, comunque incapace di rendere conto del malessere che il soggetto vive. In queste situazioni l’utilizzo di canali espressivi maggiormente fruibili, contrassegnati da una logica più “immediata”, quale ad esempio la pittura, permette al soggetto di costruire una rappresentazione di sé e del suo disagio altrimenti impossibile.
Si potrebbe dire che di fronte a malesseri muti, quali la tossicomania, l’arte permette la costruzione di una rappresentazione altrimenti impossibile. E’ come se, attraverso la creazione di un’opera, il soggetto potesse dire, a sé e al mondo, “io sono un po’ questo”.
Certo va detto che questo più che essere un risultato è un passo, la testimonianza di un lavoro in corso. Attraverso la produzione di un opera che rappresenta qualcosa di sé il soggetto potrà in seguito, nella cura,interrogare il suo lavoro espressivo cercando una spiegazione che renda conto di ciò che ha realizzato.
Particolare importanza riveste, nei laboratori espressivi, la figura dell’operatore. All’interno della cooperativa ogni laboratorio è sostenuto dal lavoro di un educatore esperto nell’attività proposta. Egli ha il compito di mettere al servizio dei partecipanti sia le proprie competenze specifiche, sia il proprio desiderio nei confronti dell’attività proposta, affinché ogni partecipante possa utilizzare al meglio il laboratorio per esprimere qualcosa di proprio, qualcosa di personale.
Nel 2012 la cooperativa ha realizzato un video dal titolo “farsi un corpo”, a cui mi permetto di rimandare (parte 1 http://www.youtube.com/watch?v=uPZArtH4jUo; parte 2http://www.youtube.com/watch?v=BKZLusex5MI; parte 3http://www.youtube.com/watch?v=bx4DIqL3Su4).
In esso è descritto un progetto artistico a cui hanno partecipato alcuni utenti della comunità. Si tratta, oltre che di una testimonianza in prima persona, di un segno dello sforzo, clinico e teorico, messo in campo in questi anni al fine di sperimentare percorsi terapeutici maggiormente rispondenti alle forme di disagio che quotidianamente incontriamo nel nostro lavoro.
Il video in questione inizia con una frase che voglio riportare qui in chiusura perché credo riassuma efficacemente il motivo per cui abbiamo provato e continuiamo a provare ad utilizzare l’arte nella cura della tossicomania: “diamo voce a storie pesanti, quando le parole non ci sono bisogna inventare qualcosa”.