mercoledì 31 luglio 2013

Sulla cosiddetta responsabilità, infine. (parte 3)

 

di Angelo Villa, psicoanalista, Direttore scientifico Accoglienza e Lavoro


Antigone e il contrabbasso – Occorre, dunque, distinguere, separare. Isolare l’enigma del limite dalla sua degenerazione moralistica, pena altrimenti, come si suole dire, gettare via il bambino assieme all’acqua sporca. Va da sé, inoltre, che anche un fugace accenno a una simile questione si trascina immediatamente appresso una tematica non poco ingombrante e fonte inesauribile di imbarazzo, quella della colpa. Argomento scandaloso che sarebbe tuttavia inopportuno trascurare o, ma al fondo è lo stesso, considerare come espressione di uno stato d’animo al quale dovrebbe esser negata ogni legittimità psichica. Come se il problema fosse la colpa e non quel che la genera.
Lo psicologismo ha prodotto non poca confusione, in proposito. Spesso ha lasciato intendere come il sentimento di colpa costituisse un problema in sé, in quanto causa di un disagio nel soggetto. La cultura della colpevolizzazione, tipica degli anni passati, è stata così progressivamente sostituita da quella della de-colpevolizzazione, una sorta di ideologia dogmatica insieme, in grado di coniugare i furori deliranti nicciani con le astruse vaghezze libertine rivedute e rilanciate in chiave “new age” . In questo caso, il passaggio dal modello asfissiante della colpevolizzazione a quello apparentemente opposto della de-colpevolizzazione è servito a evitare una ponderata riflessione sul significato e sul valore della colpa come dato strutturante il funzionamento psichico del soggetto, nel suo rapporto con sé stesso non meno che con gli altri. La cifra patologica dell’eccesso che, ora in un senso, ora in un altro, si determina abitualmente attorno ad essa, ha infatti ostacolato tale processo, privilegiando la ricerca di una sorta di ipotetico punto d’equilibrio tra i due suddetti estremi, questione puramente immaginaria. E’ rimasto così in ombra il nodo della colpa o del Super-Io freudiano come accadimento psichico, misterioso e necessario, che, insisto, è né più né meno la problematica stessa dell’essere del soggetto in quanto tale, clinica ed etica nel contempo. La colpa, infatti, designa l’insieme di quel che accade nello psichismo del singolo come ritorno del suo manifestarsi soggettivo, nelle azioni o anche solo nell’intenzionalità. Supporre di vanificarla comporta implicitamente il pensiero di dissolvere il soggetto stesso, scorporando il suo essere o la sua mancanza a essere dalle conseguenze del suo proprio esistere, del suo porsi in atto. La colpa, al contrario , unisce l’uno all’altro nell’esatta misura in cui tiene in gioco, dietro ad essa, la memoria inconscia della relazione asimmetrica che il soggetto ha intrattenuto, in precedenza, con le persone che lo hanno accudito.
Una traccia dell’altro, un atteggiamento della madre o del padre o di quelli che Freud chiama come i (“genitori) della propria preistoria personale” , è “entrata” nel soggetto, costituendolo e , col medesimo atto , dividendolo. Un’operazione che si rinnova costantemente nell’incontro con gli altri, nelle differenti occasioni che la vita crea. Anche, e non a caso, nell’approccio con il disabile.
Si può considerare, sotto questo profilo, lo stretto rapporto che tradizionalmente salda l’insorgere o il perdurare della colpa con il rendersi presente dello sguardo di un altro, prima ancora della sua parola. Per quanto, nello specifico, poi attiene l’handicap, un simile legame si è spesso mostrato nelle sue forme più estreme, nefaste e paradossali. Le pratiche di segregazione o di eliminazione dei disabili hanno reperito e tutt’ora reperiscono un loro tratto fondante nell’azione violenta di soppressione di quel che segnala il palesarsi del soggetto : il suo sguardo. Sopprimere il suo esserci è , in primo luogo, cancellare il suo sguardo, far sì che non compaia, evitando in questo modo che nasca un interrogazione colpevolizzante per l’individuo sedicente normale. I muri di molte strutture per handicappati hanno sempre svolto questa funzione: rendere non visibile il disabile agli occhi del normale, in modo che il suo sguardo non incrociasse quello di quest’ultimo, rammentandogli la propria sventurata esistenza, richiamandolo a un principio di responsabilità nei suoi confronti.
Non senza ovviamente passare per il tramite dell’unico elemento in grado di stendere un filo di collegamento tra lo sguardo del disabile e l’atteggiamento respingente del “normale”: il fantasma della colpa. Comunque la si interpreti, tenendosi a debita distanza dalla esasperazioni sado-masochistiche che possono accompagnarla, non è forse per la sua via che l’ombra dell’altro, il sentimento del suo stare nel mondo come essere umano si affaccia alla coscienza di chi gli sta accanto? Non più solo un corpo, un’etichetta, una categoria… Ma un umano tra gli umani, come tale riconosciuto nella e dalla comunità civile. Il dato clinico caratteristico della psicosi e della perversione, cioè di quelle patologie gravi che hanno necessariamente alla base l’invalidazione del riferimento simbolico all’Edipo, è quello inerente il processo di oggettivazione dell’altro, la sua riduzione nel senso letterale del termine a puro oggetto di godimento, a feticcio da utilizzare a proprio esclusivo piacimento, arida metonimia di quel che era il rapporto incestuoso con la madre.
La colpa, in quanto erede funzionale del Super-Io freudiano, isola un crocevia non aggirabile dove si dispone la questione del soggetto, come si è detto, indissociata da quella del suo rapporto con gli altri. Piaccia, o meno. La delicata questione della responsabilità ne dipende, di conseguenza. E’ per questo che, al fondo, le eventuali linee di fuga dal tema della colpa producono in genere un effetto boomerang che si ritorce sull’individuo medesimo.
L’ innegabile esistenza di altre istanze psichiche o di differenti moti affettivi non possono eludere la strettoia che la problematica inerente alla colpa istituisce come un passaggio obbligato, indispensabile nell’essere di un soggetto. Piuttosto, vi si aggiungono, vi s’intrecciano, vi convivono, interagendo con essa, in maniera spesso conflittuale. E’ , in definitiva, quel che accade con quella beanza che ha nome desiderio e che con la colpa, come è immaginabile, instaura una relazione contorta, ben poco lineare. Parlando di disabilità, ci sembra un argomento non sottovalutabile.
La responsabilità non coincide sempre o obbligatoriamente con il desiderio , può anche darsi che, in parecchi casi, le faccia da indispensabile e prosaico contrappeso. Il desiderio privilegia un orizzonte che mobilita la mancanza a essere del soggetto, la sua intenzionalità e l’oggetto attorno al quale si organizza. La responsabilità può, al contrario, apparire come associata al manifestarsi di un appello al soggetto, un richiamo o un invito anche controvoglia o in opposta tendenza a quei desideri che lo porterebbero invece da tutt’altra parte. Il desiderio comporta anch’esso una responsabilità, Lacan ne sottolinea il significato per l’esistenza del singolo, assegnandogli un valore etico. La grande colpa di cui il soggetto potrebbe macchiarsi sarebbe infatti, agli occhi dello psicoanalista francese, proprio quella di aver ceduto su questo punto, di aver lasciato che il suo desiderio man mano si stemperasse nel campo della vaghezza immaginaria sino a reperire un facile conforto nel rimorso per l’occasione perduta. Ciò non suppone tuttavia, insisto, che una responsabilità comporti un desiderio. Può darsi che, a questo proposito, non suoni affatto fuori luogo un passo del commento del Pirqé Avot (Il trattato dei padri) che così recita: “non ti è imposto di compiere l’opera nella sua totalità , ma non sei libero di sottrarti totalmente” 1 .
Può , in tal senso, il desiderio prestarsi a indicare una possibile sottrazione da una responsabilità che non sia quella prescritta dal desiderio stesso? Nel suo seminario sull’etica, Lacan propone il personaggio di Antigone , protagonista dell’eponima tragedia sofoclea, come esemplificatrice di una testimonianza radicale nel senso proprio della mancanza a essere. Riassumiamone rapidamente la vicenda: il nuovo re di Tebe, Creonte, ordina che il corpo di Polinice, fratello di Antigone, rimanga insepolto. Polinice che aveva guidato un attacco poi fallito contro la città è considerato un traditore della patria. Mentre la sua timorosa sorella, Ismene, si fa da parte, Antigone dichiara orgogliosa che si atterrà alle leggi divine della pietà e cerca per due volte di dare una sepoltura al fratello. Sorpresa dalle guardie, Antigone è condannata a morte. Dopo le ammonizioni dell’indovino Tiresia, Creonte ha un ripensamento. Troppo tardi, ormai. Antigone si è impiccata. Creonte si sente solo e disperato, maledice sé stesso e invoca la morte.
Dramma complesso e ricco di più risvolti problematici di quanti potrebbero appare a prima vista. Hegel stesso , a suo tempo, metteva in guardia lo spettatore davanti a una lettura eccessivamente manichea dell’intera storia. Come se Creonte incarnasse il male e Antigone, il bene. La figura dell’eroina sofoclea non ha tuttavia cessato di affascinare , nei secoli, autori differenti che ne hanno fornito rappresentazioni spesso contraddittorie tra loro, si pensi a Brecht e a Anouilh, capaci di mettere in luce i tratti paradossali del personaggio.
Desiderio e morte si saldano tra loro nella triste vicenda della figlia di Edipo, l’interpretazione lacaniana lo sottolinea con forza, influenzata com’ è dalla speculazione metafisica heideggeriana. Il desiderio portato alle sue conseguenze estreme sfocia o , comunque, risolve la vita nella morte che così assicura all’esistenza un senso. Determinata, inflessibile, Antigone avanza in quella che Eliot designerebbe come una “wasted land”, una terra di nessuno, come dice Lacan: lei “porta fino al limite il compimento di ciò che si può chiamare il desiderio puro , il puro e semplice desiderio di morte come tale. Questo desiderio lei lo incarna.” 2 Non a caso uno psicoanalista e allievo del maestro francese come Giacomo Contri accosta la psicologia di questo tragico personaggio a quello dell’integralismo fondamentalista. Recalcati, da parte sua, marca giustamente le differenze : “Il terrorista nella sua furia fondamentalista, usa la morte per seminare terrore e realizzare l’utopia funesta della realizzazione della Causa, mentre Antigone accetta innanzitutto la propria morte…. Antigone non ammazza, non elimina l’impuro, ma assume su di sé il peso della sua scelta singolare” 3.
Sia come sia, la morte appare come un destino inevitabile che proietta la sua inquietante ombra sullo sviluppo dell’intera vicenda di Antigone. Figlia d’un incesto, lei si candida spontaneamente a seguire la sorte del fratello, un cadavere che se aggiunge a un altro, ostentando indifferenza, quando non disprezzo, per l’amore e per il domani. Nella disabilità, la morte o , per lo meno, il suo fantasma si presenta sin da subito, come un doppio dell’esistenza stessa. Un trauma duro da rimuovere, un tormento interiore reticente ad andarsene, o , anche solo, ad allentare la presa. Il caso di Michele lo mostra in maniera paradigmatica. Morte annunciata, morte incastrata nella vita stessa, oppure, in altre situazioni, morte psichica: abisso al quale è sottratto un fondo, a meno di non denominarlo rassegnazione, dove vanno a infrangersi le illusioni narcisistiche dei “normali” in attesa di poter risorgere altrimenti, una volta passate al setaccio della castrazione. Diverse associazioni di genitori di figli disabili recano esplicitamente nel loro nome o in quello dei progetti che organizzano un richiamo “al dopo di noi” che assegna una connotazione escatologica alle loro iniziative. Si tratta di una formula efficace che, per l’appunto, è chiamata a prendere di petto il tema della morte, bussola che orienta la questione della responsabilità. S’intuisce lo scenario che prefigura. La scomparsa del familiare ha come prevedibile effetto quello di condannare il figlio, magari divenuto adulto, all’indigenza o alla trascuratezza da parte degli altri. Come se, insomma, il venir meno dei familiari anticipasse, di conseguenza, il palesarsi di un peggioramento delle condizioni di vita per l’individuo portatore d’handicap, quasi fosse un’anticamera a una sua prossima e prevedibile dipartita, dalla vita o, anche, nella vita.
I familiari, ma non solo loro, viaggiano lungo un crinale sottile, quello che separa la vita dal suo svuotarsi, dal suo ritornare all’inanimato o al caos. Si dirà tuttavia che anche la loro azione, e dunque la loro etica, risponde a un desiderio. E, quindi, non a un meccanico e asfissiante imperativo sociale, moralmente ambiguo. Se dipendesse solo da quello, l’insieme mal funzionerebbe e per primo l’atto stesso ne risentirebbe, gravandosi di un peso che lo renderebbe inautentico, costrittivo.
Freudianamente, il desiderio si configura come caratterizzato dal ritrovamento di un oggetto, in precedenza perduto, mediato per il tramite delle costruzioni fantasmatiche inconsce. Alla lettera, per l’appunto, il ritrovamento è un trovare, di nuovo. Ciò assegna al desiderio una doppia figura, quella cioè di apertura, di slancio in avanti, ma altresì di recupero, seppur in una forma parziale e diversificata, di quel è andato inevitabilmente perso. E’ il motivo, al fondo, che permette di poter coglierne la sua declinazione lungo una linea di sviluppo anche potenzialmente evolutiva, nel passaggio da una fase a un’altra, da un oggetto a un altro e così via.
Accade ,tuttavia, che la vita riservi spesso l’incontro con perdite tanto improvvise quanto inassimilabili, traumi adialettici o mutamenti sconvolgenti, come ricorda lo stesso Freud in parecchi testi. O, forse, anche più semplicemente, incombenze che l’esistenza pone dinnanzi agli individui e che domandano a quest’ultimi di rinunciare a quel narcisismo che, comunque, il desiderio veicola.
Contrapporre il desiderio al sacrificio presuppone uno schematismo fuorviante e di cui, per altro, Antigone non incarna la figura più nitida a riguardo. In un breve racconto dal titolo “ Perché uccidere il contrabbasso?” 4, lo scrittore scandinavo Stig Dagerman racconta la storia di un uomo che nutriva una grande passione per il contrabbasso. La nascita di un figlio, desiderato da tanto tempo, “anche se non ne avevano mai parlato “ 5 , finisce per porre il musicista davanti a una drastica scelta, un aut aut che non concede tregua. O il contrabbasso o il bambino. In estrema sintesi: o il desiderio o …
Saggiamente, Dagerman fa notare la necessità per il genitore di far sua “ l’arte di trovare un equilibrio” che gli consenta di non rinunciare né al contrabbasso né al bambino (o , più precisamente, al suo essere padre) , ipotizzando che , in futuro, ad esempio, l’adulto possa far conoscere al figlio il suo desiderio, introducendolo così al suo mondo. Soluzione indubbiamente condivisibile, capace di smorzare il rigido antagonismo tra desiderio e sacrificio, tra la dedizione a un proprio interesse e il sacrificio masochistico al servizio della domanda degli altri, ma non del tutto convincente. La complementarietà, così come l’idea di un’equa mediazione, nutrono entrambi l’utopia seducente di una pacificazione, quello, cioè, dell’addomesticamento della perdita o della sua regolata gestione.
La realtà è più semplice o, probabilmente, più dura e intransigente. Complice del caso, essa dispone del potere immenso di far saltare equilibri, spesso conquistati a fatica. Ciò finisce per collocare spesso il singolo individuo davanti a scelte che occorrerebbe scrivere virgolettate nella misura in cui si costituiscono in stretta conseguenza ad eventi che il soggetto subisce, in un modo o nell’altro. Episodi, situazioni che possono mutare radicalmente il corso della sua vita e che, per ritornare al Super-Io freudiano, costringono una persona a fare i conti con il non voluto, e quindi con una dimensione economica psichica anti-narcisistica, anti-incestuosa. Scelte del genere assumono il valore di una risposta con la quale il singolo prende , di fatto, una posizione, inevitabilmente soggettiva, nei riguardi dell’accadimento oggettivo che lo coinvolge, ben oltre il suo desiderio. Da quel momento in poi, la sua vita è sollecitata a imboccare un’altra direzione, potenzialmente capace di assorbirla per intero. La “scelta” rappresenta così la risposta, insisto su questo termine, a una chiamata: dinamica che mi sembra presieda adeguatamente a un principio di responsabilità che non può non includere l’altro allo stesso titolo che sé stessi. Vivere è convivere, comunque. L’inferno sono gli altri, sentenziava un personaggio teatrale sartriano. Frase celebre, troppo roboante per non essere falsa, troppo esagerata per non essere vera. Un antidoto salutare al sentimentalismo mieloso e ipocrita. Evidentemente, però, non basta…
Fuor di ogni retorica, la responsabilità o quel che si presenta sotto quel nome declina la matrice di un sintomo che , per un verso, tende a stringere e , per un altro, tende ad allentare il rapporto con l’altro, traducendo e tradendo il manifestarsi, per l’appunto, di una risposta a fronte dell’emergere di una presenza, al dispiegarsi di un incontro . In quanto sintomo, per eccellenza umano, accettato e assunto, messo in parole e in atti, la responsabilità è altro dal rigetto, dall’ideale, dal sacrificio e, come si è detto, dal desiderio “tout court” cui non invidia, di certo, la dignità. Forse, per tornare al caso di Lara da cui siamo partiti, è incominciare a stare lì, impresa per la verità non sempre delle più agevoli, al suo fianco. Con lei, evitando di mettersi al suo posto. Accettando così il prezzo amaro che la sua disabilità richiede, quello cioè di sperimentare una comunicazione frammentata, incompiuta, il più delle volte in grado di mettere a dura prova un processo minimale di comprensione. Tocca al cosiddetto normale, e a chi se no?, prodigarsi per far esistere quel dono del dire che l’handicap ha mutilato. E’ un modo per guardare in faccia il tragico assicurandogli una rappresentazione, non obbligatoriamente depressiva, che tessa la trama di un legame, sbilanciato e paradossale quanto vogliamo, attraverso il quale una socialità può prendere forma. L’unica che sappiamo produrre, l’unica nella quale le nostre vite possono trovare un respiro, un’ansia civile che non le soffochi.
1) AA.VV. – Commentaires du Traité des Péres (Pirqé Avot) – Verdier, Paris, 1990, p. 121
2) Jacques Lacan- Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960 – Einaudi, Torino, 1994, p .356
3) Massimo Recalcati – Ritratti del desiderio – Raffello Cortina, Milano, 2012, p. 150
4) In Stig Dagerman – Perché i bambini devono ubbidire? – Iperborea, Milano, 2013, p. 43-49
5) “… In realtà non avevano mai parlato di niente, lui suonava e lei ascoltava…” , idem, p. 43

giovedì 25 luglio 2013

Sulla cosiddetta responsabilità, infine (Parte 2)


di Angelo Villa, psicoanalista, Direttore scientifico Accoglienza e Lavoro


Del dovere
Le tormentate vicende di un numero infinito di disabili documentano tuttavia come l’amore non sia quel lessico universale che guida la cura verso di loro, anche ai livelli più minimali. D’altronde, aldilà di qualsiasi mistica della sofferenza, un sentimento non può essere imposto e tanto meno autoimposto. L’esito che ne potrebbe derivare sarebbe , infatti, alquanto prevedibilmente catastrofico. Di per sé, poi, tradotto o , se vogliamo, sminuito nella sua versione psicologizzata, il rimando all’affetto diventa suscettibile di fondarsi su una variabile troppo arbitraria e aleatoria per fare da supporto a un principio di responsabilità. E’ purtroppo quel che è frequente riscontare nelle prassi relazionali di taluni servizi o negli agiti di molti operatori. La responsabilità nei riguardi del disabile riposa su una discrezionalità incontrollata, soggettivamente intransigente.
L’eccesso che introduce, per quanto dissimulato nelle pieghe di un’incurante e sbrigativa ordinarietà relazionale, si presta bene a mettere in luce il concetto che , per contrasto, vi si oppone e che tradizionalmente è ritenuto il terreno propizio sulla quale edificare un solido basamento per il principio di responsabilità: il senso del dovere. La speculazione filosofica vi si ritrova a suo agio, nella misura in cui si sforza di promuovere un’articolazione enunciativa che si appoggia sul mai perduto platonismo del primato dei valori ideali o della normatività generale di matrice kantiana.
Ipotesi che possono anche sospingere il dovere in alto, sino a smarrirsi nel cielo di una vacua e tronfia apologia perbenista, o precipitare furiosamente sul fondo, battendo strade oscure in nome in un diktat avalutativamente assunto. La critica che i “francofortesi “; Adorno e Horkeimer in testa, hanno indirizzato al dogmatismo kantiano, colpevole di riaffacciarsi paradossalmente le pieghe dello sconcertante moralismo sadiano, ne è la prove. Sostituire alla legge dell’amore , l’amore per la legge è impresa non esente da rischi. Come hanno più volte ricordato figure come Hanna Arendt o Primo Levi, l’ auto difesa dei gerarchi nazisti , e quindi il rinvio alla loro singola responsabilità individuale per le azioni criminali commesse, si è avvalsa del ricorso costante a un’affermazione, reiterata come una litania: “eseguivo gli ordini”. La responsabilità, in questo caso, viene sussunta nel registro dell’obbedienza, messa in conto alla fedeltà al mandato ricevuto dall’altro e dall’alto; è un atto che tende ad autoassolversi dalla propria implicazione soggettiva. Ciò permette anche, fattore non secondario, all’individuo di agire con la massima sfrontatezza nell’ambito delle operazioni gli competono, si pensi all’ottusa e perfida ferocia del burocrate, grazie all’alibi morale che il ruolo di puntiglioso esecutore gli assicura.
Che la memoria distratta non rimuova l’orrore, dimenticando quali atrocità , nel cuore dell’allora civilissima Europa , degli esseri umani sono stati in grado di compiere! Nell’autunno del ’39, nella Germania nazista fu pianificata l’eliminazione degli infermi, dei malati di mente, dei disabili: un progetto denominato “T 4”. Hitler , in persona, firmò di suo pugno l’ordine segreto che autorizzava, in particolare, il capo della sua cancelleria privata , Philip Bouhler, e il suo medico personale, Karl Brandt, a concedere “una morte misericordiosa” a questi sventurati. Il castello di Hartheim, nei pressi del campo di concentramento di Mauthausen, brillò per la sua lugubre efficienza nel perseguire l’obiettivo. Dopo l’Anschluss del ’38, il maniero venne infatti espropriato e ristrutturato per meglio servire a quella barbara finalità : in precedenza era la sede di un istituto per bambini portatori di handicap , diretto dalle sorelle dell’Ordine di san Vincenzo de’ Paoli. 1 I disabili individuati da una commissione preposta a quello che sarà denominato come l’”ufficio degli assassini” giungevano a frotte al castello, ammassati sui pullman, sui treni.
Ora, la potenziale inclinazione verso una deriva chiaramente perversa non può candidarsi tuttavia a riassumere interamente la complessa questione del rapporto che il singolo intrattiene con una normatività che suppone il rispetto delle leggi comuni come premessa indispensabile per una accettabile convivenza per tutti. Ricondotto nell’ambito del discorso psicoanalitico, tale problematica inevitabilmente rinvia a quell’istanza psichica che è supposta mediare questa dimensione e cioè il Super-Io. Si tratta, com’è noto, di un tema a lungo lavorato dalla riflessione post-freudiana, talvolta anche in opposizione alle tesi originarie del maestro viennese. Secondo Freud, il Super-Io è ritenuto svolgere nell’ambito della vita psichica di un individuo un ruolo paragonabile a quello di un giudice o un censore nei riguardi dell’Io. Letteralmente, “Uber-Ich” indica, per l’appunto, ciò che sta “sopra” l’Io. Ciò ne fa il supporto fondamentale della coscienza morale, dei meccanismi di auto-osservazione così come del processo di costituzione degli ideali per il soggetto. In Melania Klein, il Super-Io assume una connotazione inquietantemente persecutoria, in Lacan si presenta come l’espressione perversa di un’ingiunzione a godere. Se , tuttavia, rimaniamo ancorati all’ipotesi freudiana di base, il Super-Io si configura specificatamente come l’erede del complesso d’Edipo.
Nel suo scritto del ’24 dal titolo “Il tramonto del complesso edipico”, il maestro viennese prende in esame il processo di rimozione cui soggiace il suddetto complesso e che avvia la cosiddetta fase di latenza. Scrive Freud: “ Non vedo alcun motivo per rifiutare il nome di “rimozione” a questo distogliersi dell’Io dal complesso edipico. Ma il processo descritto è più di una semplice rimozione, esso equivale , se portato a termine nel modo ideale, a una completa distruzione ed eliminazione del complesso. E’ facile rendersi conto che siamo qui in presenza della linea di demarcazione, che in verità non è molto netta, fra normale e patologico” 2. Spetta, di conseguenza, al Super-Io, frutto dell’interiorizzazione dell’autorità paterna o parentale, vigilare sull’operatività di questa rimozione dal carattere tutt’altro che superficiale. La posta in gioco è assolutamente decisiva, essa mira al superamento del nucleo morboso del complesso edipico nel quale sono imbrigliate le pulsioni inconsce del soggetto: l’incesto.
Il Super-Io, freudianamente inteso, non va comunque confuso con l’Ideale dell’Io, per quanto, ad esempio, in taluni passaggi de “L’Io e l’Es” i due concetti vengano utilizzati come sinonimi, altrove, infatti, all’Ideale dell’Io è accordata una valenza propria, quella cioè di rappresentare un modello al quale il soggetto tende a adeguarsi. In tal senso, l’Ideale dell’Io è ritenuto veicolare un contenuto positivo cui il singolo è spinto a identificarsi, laddove, invece, il Super-Io rileva di un’opzione meramente negativa. Il Super-Io “edipico” non esplicita come il soggetto dovrebbe comportarsi o a quali valori sarebbe bene che si attenga o così via. Semplicemente, se così si può dire, il Super-Io presentifica l’ordine di una proibizione: indica quel che non si deve o non si può fare. L’essenza morale della sua funzione, dalla quale poi a cascata discendono le successive implicazioni, è palese: dire no all’incesto. Ciò riguarda, in maniera diretta, molto meno le propaggini immaginarie del dramma sofocleo quanto più veridicamente l’effetto devastante cui l’incesto mira, quello cioè dell’abolizione della differenza. Lo ricorda giustamente Marc-Alain
Ouaknin : c’ è “shoah” quando qualcosa è indifferenziato, identico. Questo termine impiegato per designare il dramma del genocidio, vuol dire in ebraico “ ogni situazione d’indistinzione dove gli uomini non accedono più alla loro singolarità”3 . L’interdizione super-egoica punta, dunque, a ergersi come una barriera contro il caos, separando il normale dal patologico, l’alterità dall’omogeneizzazione, il distinto dall’amorfo.
E’ evidente come, rispetto al paragrafo precedente, la prescrizione edipica marchi uno stacco, segnali un cambiamento di registro, imboccando una direzione che si discosta da quella china simbiotica che rischia di far precipitare la relazione tra l’accudente e l’accudito in un abisso, di fatto, incestuoso. Nella sua accezione paradigmatica, la “negatività” super-egoica si prodiga per far interiorizzare un limite, quel freno stesso che la simbiosi tende invece impunemente a corrodere. Allo stesso modo e, indubbiamente, per altri versi, la medesima perversa protervia nazista che con sadico vigore si accaniva ferocemente sulle vite dei disabili inerti, se sicuramente dava prova di un’insaziabile volontà di godimento, quale deprecabile espressione di un degenerato imperativo interiore, non per questo ci pare assimilabile alla cifra etica del Super-Io freudiano. Nella sua traduzione più immediata, scevro da qualsiasi enfasi idealizzante, esso recita: “ il corpo, l’essere dell’altro non ti appartengono, non sono cosa tua. Non puoi disporne a tuo piacimento come se lo fossero o potessero venir ridotti a feticci o a oggetti di consumo. “
E’ in quanto non me, in quanto altro dalla sua percezione rapida e istintiva che un soggetto coglie la presenza del prossimo come scandita da quell’irriducibile alterità che lo rende unico, non uguale, in una parola, differente da sé. L’atto medesimo con cui l’alterità dell’altro è avvertita, intuita, colta è lo stesso che “costringe” a pensarne l’intenzionalità, a sondarne l’enigma, a cercare, insomma, di comprendere chi è la persona che sta lì davanti. L’interdizione edipica indica bene come ciò si genera a partire da una perdita, da un impedimento. E’ perché l’altro non è consumabile dalla pulsione libidica, è perché una “legge” interiorizzata ne impedisce l’assimilazione che costui può, quindi, apparire come un soggetto, e non come un puro oggetto manipolabile a piacimento. Lo Edipo si fa custode di una decisione: la scelta di optare per l’essere contro il non essere.
Ma, c’è di più ed è un aspetto che credo non vada trascurato. L’assunzione dell’interdizione edipica stimola un processo d’incorporazione della normatività che le è propria sulla base di una dinamica inter-relazionale che non risponde ad alcuna logica circolare, che non rileva di nessuna presunzione “alla pari”. L’individuo, poniamo il caso del bambino, la fa sua nell’esatta misura in cui la riceve, volente o meno, da qualcun altro, più grande di lui. Detto in altri termini, la legge che protegge l’alterità si fonda essa stessa su un presupposto anti-egualitario. E, probabilmente, non potrebbe essere altrimenti!
Si tocca qui con mano un tratto , a mio parere, essenziale che attiene il tema stesso della responsabilità. Se, infatti, l’alterità sta all’origine dell’interdizione edipica è poi ancora l’alterità stessa che ritorna al soggetto come eredità e memoria di quell’incontro con una legge non scritta che, per definizione, Freud connota come traumatico. Mi risulta difficile, a questo punto, separare la nozione di responsabilità da quella, per l’appunto, di differenza, di non specularità. Si può anche ipotizzare come, per ritornare al piccolo dell’uomo, l’acquisizione di una simile regola segnali la contrazione di un debito simbolico con l’autorità genitoriale, riconoscimento di quel che ha avuto, di quel che gli è stato dato, di chi l’ha preceduto nella catena generazionale… La costituzione del Super-Io sigilla l’attestazione di questo movimento, quasi fosse la punta di un iceberg. Si può, ancora, di conseguenza, accostare la questione del debito a quella del dovere, intesa come priorità ontologica nei riguardi delle seduzioni narcisistiche del diritto. Sono, in effetti, questioni che si intrecciano l’un l’altra in maniera stretta. La mia resistenza a non andare più a fondo ha come obiettivo quello di salvaguardare una tensione interna al soggetto piuttosto di giungere a un imperativo categorico, a un “devi” che finirebbe per svilire l’intero approccio al tema. Una tensione designa la misura di uno scarto, di una lacerazione tra le istanze che convivono nell’individuo, tra l’accettazione di un debito e l’avanzamento di un diritto , tra il sentimento dell’altro e l’intuizione del proprio vissuto personale. La tensione esemplifica di fatto il venire alla luce di una divisione individuale che è la cifra stessa della soggettività psichica, tra quello che uno è e quello che vorrebbe, tra quello che sarebbe “portato” a compiere e quello che invece… L’esatto opposto di quell’efferata volontà di godimento che anima le condotte distruttive, più o meno orientate in chiave perversamente super-egoica.
Mi limito solo a isolare tre brevi annotazioni a riguardo. La prima : riconoscere l’imprescindibilità di una logica della non corrispondenza nel principio di responsabilità costituisce un passo essenziale. Hans Jonas lo dichiara senza ambiguità, quest’ultimo , infatti, “deve essere indipendente da ogni idea di diritto sia da quella di reciprocità “4, a patto però di cogliere come un simile principio non possa non risultare, strutturalmente e non contingentemente, contraddittorio. Salvo altrimenti ricadere, del tutto prevedibilmente, in un florilegio di asserzioni unilaterali che sembrano esaurire la loro funzione nell’atto stesso della loro enunciazione, limite in cui ci pare si attesti la riflessione “iper-kantiana “ del filosofo tedesco. La seconda : per quanto ci sforzi di contornarla in termini teorici, l’etica umana riguarda il dipanarsi concreto di azioni, gesti, non in astratto, ma come direbbe Dietrich Bonhoeffer, eseguiti in un tempo e in un luogo dato, sotto il peso di determinate condizioni che mai sono quelle ottimali . La terza: l’incontro o, più esattamente, l’impatto con la disabilità mina l’equilibrio del “normale” in virtù del processo di cortocircuitazione tra interno ed esterno che mobilita nel soggetto 5 . Si tratta del venire alla luce di una realtà o, come direbbe Lacan, di un reale che impone una vigorosa battuta d’arresto alla pretesa del pensiero di essere autosufficiente. Uno shock che innalza la resistenza più tenace e radicale al “logos” e al suo tentativo di riassorbire l’evento traumatico nella sua rete discorsiva. Tale, e non altro, è il quadro entro cui l’atto responsabile si configura. In “Libertà” , il noto romanzo di Franzen 6 che disegna un vivido affresco delle contraddizioni che si affacciano nella società contemporanea, un interrogativo domina le condotte dei suoi protagonisti: “Se sono libero di scegliere, allora come devo vivere?”. Sono, al contrario, qui le radici stesse di questa libertà a ritrovarsi compromesse, intralciate nel loro potenziale dispiegarsi. Il blocco che viene così inferto al dire, all’efficacia di un’elaborazione è , di pari passo, un impedimento all’azione, un freno alla libertà del “normale”.
L’altro c’è, esiste. Si direbbe, innanzitutto, a partire dalla castrazione che immediatamente paventa a chi gli sta a fianco, come inequivocabile espressione di una condanna all’impotenza, a una forzata restrizione al suo movimento.
La responsabilità che il “normale” è chiamato a svolgere nei confronti del disabile credo appartenga e, in un certo qual senso, discenda da questa implicazione super-egoica, nel senso dell’accezione fondamentalmente freudiana del termine. La matrice sobria e quasi inavvertita del dovere vi gioca un suo ruolo essenziale come espressione immediata di una sensibilità. Se l’altro non è nella possibilità di elaborare i propri pensieri, di esprimere i suoi moti interiori, il cosiddetto normale si situa o, per lo meno, dovrebbe situarsi nella posizione di chi agevola una simile presa di posizione, evitando di sostituirsi a lui. Se l’etimologia del vocabolo responsabilità conduce dritto dritto al verbo rispondere, allora responsabile è colui che risponde all’altro, ma anche in sostegno dell’altro. “Apri la tua bocca in favore del muto”, come si legge nella letteratura sapienziale biblica (Pr 31, 8).
Dovere e responsabilità condividono un concetto comune che li rende in qualche modo solidali tra di loro , quello cioè di implicazione. Entrambi , infatti, rilevano dell’esistenza di un rapporto tra un soggetto e la dimensione di un altro da sé che, pur essendo staccata, differente dal soggetto medesimo mantiene un legame con essa. L’opposto, in effetti , di quelle nefaste strategie di eliminazione o di emarginazione che degli esseri umani, sedicenti normali, hanno posto in atto verso i disabili, e non solo loro. L’espulsione, la messa a morte degli individui svantaggiati si basava e, purtroppo, continua a basarsi su un presupposto specularmente contrario, quello cioè della disimplicazione , del rigetto sfrontato dell’implicazione. Il nesso che, come un filo rosso, unisce l’esistenza del “normale” a quello del disabile viene reciso e , assieme ad esso, è l’altro stesso a venir abbandonato a una deriva di morte. Non senza che l’eco immediato di una simile operazione nichilista si rovesci in maniera pervasiva sulla vita dei normali, poco o nulla normati.
L’uso del plurale non è, in questo caso, azzardato. O meglio, la storia insegna come l’attivazione di talune pratiche perverse si sia fatta forte del consenso o , se vogliamo, della legittimazione che esse incontravano in un ambito collettivo. Il nazismo ne fu un esempio e non è nemmeno detto che sia l’ultimo. La convenienza del momento, lo scaltro opportunismo di molti hanno finito per istituire una deprecabile morale collettiva che è andata sostituendosi o ha fatto finta di sostituirsi a una presa di posizione etica che non può non essere che necessariamente individuale.
L’accesso all’interdizione edipica e a tutto quel che ne consegue o ad esso intimamente si associa attiene l’ordine della castrazione simbolica. Essa riguarda ciascun esser umano nell’esatta misura in cui ognuno, da solo, è candidato a farci i conti. Una difficoltà che ne può derivare è quella che si lega all’incapacità del soggetto di interpretare in maniera sensibile la cifra negativizzante della proibizione super-egoica. Il rischio che ne può infatti scaturire è quello di “confondere” , se così possiamo dire, l’istanza propria al debito che il singolo contrare con la storia di quelli che l’hanno preceduto con la domanda degli altri. Spesso assillante, in genere ricattatoria. Domanda conscia o inconscia, personale o plurale, tacita o esplicita delle persone che stanno intorno al soggetto e che tendono a richiamarlo a un’adesione al loro volere, a una continuità con le proprie ossessioni fantasmatiche. Perché questo è quel che ambisce o pare in qualche modo ambire un genitore, il gruppo, un coetaneo, la gente, l’opinione pubblica, l’ideologia dominante, il conformismo diffuso e così via.

1) Vedasi il testo di Mireille Horsinga- Renno – Una ragionevole strage. La sconvolgente inchiesta su un medico della morte rimasto impunito – Lindau, Torino 2008
2) Sigmund Freud – Il tramonto del complesso edipico- in F. O. , vol. 10, p. 31
3) Marc-Alain Ouaknin – Les dix commandements – Seuil, Paris, 1999, p.76
4) Hans Jonas – Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica – Einaudi, Torino, 1990, p. 49
5) Mi permetto di rinviare al mio saggio
6) Jonathan Franzen – Libertà – Einaudi, Torino, 2011

mercoledì 24 luglio 2013

I giochi d'azzardo per battere la crisi - Giornalettismo


I giochi d’azzardo per battere la crisi

di - 23/07/2013 - Poeti, santi e scommettitori. Anno dopo anno gli italiani si confermano leader mondiali di schedine e lotterie. E bruciano 70 milioni di giornate di lavoro. Mentre lo Stato porta a casa 8 miliardi di tasse. Tutti i numeri del fenomeno

I giochi d'azzardo per battere la crisi

Italia, popolo di santi, poeti e navigatori. Anzi no. Santi, poeti e scomettitori. Se dovesse essere rivista ed aggiornata ai nostri tempi la nota iscrizione al Palazzo della Civiltà del Lavoro, all’Eur, un chiaro riferimento ai giochi e alle lotterie potrebbe essere considerato per nulla bizzarro o fuori luogo. Lo suggerisce l’evidenza, perché in ogni angolo del Paese spuntano centri scommesse e sale da poker, ma anche e soprattutto gli studi e le statistiche che hanno analizzato la crescente propensione all’azzardo. I numeri, in poche parole, non lasciano adito a dubbi: popolo di scommettitori lo siamo davvero.

gioco d'azzardo lotto scommesse 2

MEZZA ITALIA SCOMMETTE – Da quanto emerge ad esempio da uno studio realizzato dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa, dal 2008 al 2011 è salito dal 42 al 47% il tasso di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni che almeno una volta effettua una puntata o partecipa ad uno dei tanti giochi presenti sul mercato legale, come il lotto, il superenealotto, i gratta e vinci, le scommesse sportive, il poker online. Si tratta complessivamente di una vasta platea di 19 milioni di scommettitori dei quali ben 3 milioni sarebbero a rischio ludopatia (ben 35 milioni i giocatori complessivi secondo uno studo Eurispes del 2009). Tra loro soprattutto uomini, disoccupati e persone con un basso livello d’istruzione. Non si tratta di dettagli di poco conto. Il gioco viene spesso considerato come possibile scorciatoia per risolvere problemi economici e, in una fase di crisi, rischia di compromettere definitivamente la situazione finanziaria di migliaia di lavoratori in difficoltà. Ma non solo. C’è un problema sanitario. La ludopadia, così come definita dall’Istituto superiore di sanità, è una dipendenza senza sostanze che può trasformarsi in una vera e propria malattia sociale se non affrontata adeguatamente con mezzi di informazione e prevenzione.
700MILA LUDOPATICI – Le cifre in circolazione per quantificare le persone affette da questa patologia sono diverse. E si tratta in ogni caso di dati preoccupanti. Secondo lo studio del Cnr i dipendenti dal gioco italiani sono oltre 700mila (708mila), quasi il 2 percento della popolazione. Mentre un altro milione e 700mila rischierebbe di cadere nella trappola della malattia. Dal conteggio non sono esclusi gli adolescenti. Ancora l’Istituto di fisiologia ha rivelato come fosse alto il tasso di adolescenti (uno su dieci) che – nonostante i divieti – spendono mensilmente per i giochi tra i 30 e i 50 euro. Nel 2012 avrebbero effettuato puntate oltre 630mila under 18.
L’AFFARE DI STATO – L’affare è ghiotto per tanti concessionari. Anche per lo Stato. Il settore del gioco, in costante crescita, rappresenta il 4% del pil italiano, con un giro d’affari che si aggira intorno ai 90 miliardi di euro, con entrate per il Fisco mediamente pari ad oltre 8 miliardi. Nel 2012 la raccolta è stata pari ad 87,1 miliardi di euro (70 miliardi tornati ai giocatori come vincite), con un incremento di circa il 9% rispetto ai 79,9 miliardi del 2011. Le entrate per l’erario sono aumentate di circa il 265% nel periodo 2003-2012. Negli stessi anni le giocate hanno fatto registrare invece una crescita del 445%. Un conteggio a parte merita poi il mercato illegale, il cui fatturato nel 2011 è stato stimato intorno ai 10 miliardi di euro.
TERZA AZIENDA D’ITALIA – Per comprendere quanto il comparto dei giochi sia diventato rilevante nella nostra economia basta considerare che gli 8 miliardi che entrano nelle casse dello Stato sono pari all’ammontare di una piccola manovra finanziaria. Il settore delle scommesse e delle lotterie costituisce insomma la terza ‘impresa’ italiana, preceduta solo dai colossi di Stato Enel e Eni, ed è probabilmente una delle poche ‘aziende’ con un bilancio saldamente in attivo anche durante periodi di recessione. Potenzialmente siamo leader a livello mondiale. L’Italia è terzo paese al mondo per volume di gioco dopo Giappone e Regno Unito. Nel 2011 il mercato del nostro azzardo ha raccolto (al netto dei premi erogati) 18,4 miliardi di euro, il 4,4% del mercato mondiale e il 15% di quello europeo. Secondo un dossier dell’associazione Libera pubblicato lo scorso anno, la spesa media procapite italiana ammonta a circa 1.260 euro, neonati compresi. Dati ancor più preoccupanti sono stati forniti nel 2012 dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, che ha stimato la spesa media annua procapite in 1.703 euro. Uscite alle quali vanno aggiunti i costi economici legati al tempo speso per giocare e i costi sociali della sanità.
70 MILIONI DI GIORNI DI LAVORO BRUCIATI – Stando a quanto riferisce la Consulta nazionale delle fondazioni e associazioni antiusura, la dedizione ossessiva a slot machine, videopoker e gratta e vinci sottrae agli italiani circa 70 milioni di giornate lavorative, circa 490 milioni di ore. E dirotta almeno 20 miliardi di euro dall’economia reale, cancellando ben 115mila posti di lavoro. Lo Stato – che comunque incassa il bottino delle tasse – si ritrova quindi a pagare elevati costi indiretti. Stando a quanto riportato dal deputato Nicola Molteni in un’interrrogazione parlamentare indirizzata ai ministri dell’Economia e della Salute, il gioco d’azzardo contribuisce ad aumentare a dismisura i costi familiari e socio-sanitari poichè la ludopatia provoca alla collettività un danno calcolato tra i 5,5 e i 6,6 miliardi di euro. La Consulta stima stima in 2 miliardi il solo costo socio-sanitario per la cura dei ludopatici. Infine, il problema legalità e criminalità. L’indebitamento dei giocatori patologici favorisce l’usura e l’adescamento da parte della criminalità di giocatori malati.
LE SOLUZIONI – Come affrontare il fenomeno? La dipendenza dal gioco è una delle principali cause di suicidi e le soluzioni normative finora adottate sembrano troppo flebile. In realtà il decreto Balduzzi del 2012, convertito in legge, prevede anche misure per rendere più efficace e incisiva l’azione di contrasto alla ludopatia. Ma un’attuazione puntuale degli impegni assunti nella scorsa legislatura non è ancora arrivata. Alcune mozioni presentate in Parlamento nelle ultime settimane chiedono ai ministri di ridurre l’accesso al gioco dei minorenni, incrementare il numero delle campagne informative e di prevenzione, investire in opere di sensibilizzazione per scongiurare effetti negativi dovuti ad un approccio non responsabile alle puntate, e aggiornare infine – proprio come previsto dal decreto Balduzzi – i livelli essenziali di assistenza per la cura e la riabilitazione dei ludopatici. Basterà?


tratto da:  http://www.giornalettismo.com

martedì 23 luglio 2013

Trento, il Comune approva elenco di 317 'luoghi sensibili'


Ci vorranno dieci giorni per conoscere l'elenco dettagliato dei 317 'luoghi sensibili' stabiliti dal Comune di Trento per limitare il numero di slot machine in città. Il 'nuovo' regolamento arriva a un mese di distanza dal  pronunciamento negativo del Tar trentino sull’articolo 2 del provvedimento comunale che fissava in 500 metri la distanza minima da scuole, centri per giovani e anziani e strutture sanitarie e socio-assistenziali ma senza procedere all'individuazione precisa dei siti.
Secondo la sentenza del tribunale amministrativo, l'amministrazione aveva infatti mancato del tutto di "effettuare l'imprescindibile istruttoria specifica che le competeva, ossia l'individuazione precisa dei siti da cui calcolare il raggio entro il quale è vietata la collocazione di nuovi apparecchi da gioco, venendo così meno al dovere di identificare i singoli siti ex ante e non nel corso dell'istruttoria delle future richieste di installazione di apparecchi da gioco".
Detto, fatto. Nel corso dell'ultima seduta del consiglio comunale di Trento, l'assessore alle attività economiche Fabiano Condini ha portato in aula il nuovo testo, con allegato l’elenco richiesto, incassando 30 voti a favore, 2 contrari e 1 astenuto.
I 'luoghi sensibili' individuati sono 317 e, in concreto, impediscono l’apertura di nuove sale su tutto il territorio comunale.

Ludopatia, Confindustria: "Serve un testo unico sul gioco" - Affaritaliani.it

Quattro miliardi di entrate per lo Stato. Un volume d'affari più che raddoppiato nel giro di cinque anni. Ma anche tante persone che ne sono diventate malate. Il settore del gioco in Italia è uno dei pochi che non conosce crisi. E tiene banco la questione ludopatia: "Svago e divertimento non dovrebbero mai diventare malattia o dipendenza", afferma Massimo Passamonti, presidente di Confindustria Sistema Gioco, inrervistato da Affaritaliani.it: "Il tema del contrasto è di pertinenza dello Stato ma noi siamo in prima linea. Auspichiamo la formulazione di un testo unico che riordini il settore". Su mafia e illegalità: "Abbiamo fatto emergere un sistema fino ad allora clandestino garantendo incassi legali e autorizzati. Il gioco per gli italiani dovrebbe essere solo un momento ludico".
LO SPECIALE DI AFFARI
LA CAMPAGNA/ "Subito una legge che regolamenti il gioco"
ALLARME DIPENDENZA/ Ecco il Sert che cura i malati di gioco
L'INTERVISTA/ "Per giocare rubo i soldi a mio marito"
Si sentono sempre più spesso storie di cronaca di persone rovinate dal gioco. Il gioco è una malattia o è solo un fattore contingente?
Il gioco, in quanto tale, è svago e divertimento, non dovrebbe mai diventare malattia, tantomeno dipendenza. Gli operatori del gioco legale, riuniti in Confindustria-Sistema Gioco Italia (SGI), non intendono sottovalutare il tema, che resta però di competenza degli specialisti, e da tempo si stanno impegnando per supportare con proposte e azioni concrete il legislatore. Va però anche detto che sull’argomento dipendenze da gioco oggi circolano numeri e cifre che non hanno alcun fondamento scientifico: attendiamo quindi lo studio condotto con il contributo scientifico del Dipartimento contro le dipendenze della presidenza del Consiglio che rappresenterà la prima analisi corretta e approfondita del fenomeno. Le valutazioni e le azioni partiranno da lì.

Sistema Gioco Italia come pensa di contrastare la ludopatia?

Fermo restando che il tema del contrasto resta di pertinenza dello Stato, così come per tutto quanto concerne la sfera della salute, vorrei ricordare come proprio noi di Confindustria-Sistema Gioco Italia, prima ancora dei provvedimenti del decreto Balduzzi, ci siamo imposti regole vincolanti su modalità e contenuti della pubblicità, oltre ad aver attivato servizi a supporto dei giocatori problematici e dei loro familiari. E’ un aspetto che ci sta particolarmente a cuore non solo come imprenditori, ma anche come soggetti socialmente responsabili. Pochi giorni fa, inoltre, gli operatori di Sistema Gioco Italia hanno presentato alle Autorità una proposta di revisione della distribuzione e della quantità dell’offerta di gioco in Italia.
LUDOPATIA, LE MISURE DI SISAL
Quali sono le iniziative di Sisal per combattere la ludopatia? Lo ha recentemente spiegato il presidente di Sisal, Augusto Fantozzi, in occasione della presentazione del bilancio sociale 2012. "Noi abbiamo sicuramente delle iniziative concrete, delle regole, abbiamo uno sportello, un telefono di sostegno, di attenzione che risolva e che ascolti coloro che hanno questi problemi e soprattutto siamo disponibili anche a sostenere economicamente la lotta alla ludopatia. Naturalmente è un problema generale, come tutte le malattie, a cui deve provvedere lo Stato, noi facciamo sicuramente e ampiamente la nostra parte, lo Stato deve fare la sua".  
Sisal è l'azienda che nel nostro Paese ha dato vita al mercato moderno dei giochi a pronostico con il lancio nel 1946 della "schedina Sisal", poi divenuta Totocalcio. Da oltre 65 anni gestisce i giochi pubblici affidati in concessione allo Stato. Tra il 2007 e il 2012 ha visto aumentare più del doppio il proprio volume di affari, passato da 5 milioni e 851 mila a 13 milioni e 781 mila euro. Il numero dei dipendenti è raddoppiato: dai 775 del 2007 ai 1575 del 2012. 
Nel 2012 lo Stato, trattenendo sulla spesa finale al netto delle vincite restituite il 47,3% ("una tassazione seconda solo al comparto delle accise sulla benzina", dicono ai Monopoli) nel 2012 ha incassato in totale 8 miliardi e 100 milioni di euro.
Pensa che la politica stia facendo o abbia fatto abbastanza per contrastare la ludopatia?
Il nuovo governo ha dato segnali di interesse e volontà di affrontare concretamente il complesso mondo del gaming. Auspichiamo si arrivi alla formulazione di un testo unico che, alla stregua di altri comparti di business, riordini e metta a sistema le diverse normative del settore che si sono stratificate nel corso degli anni spesso con sovrapposizioni che ne rendono difficile l'applicazione. Puntiamo ad arrivare a soluzioni concrete che salvaguardino i consumatori insieme al presidio dell'offerta di gioco legale e delle entrate erariali.

Il rischio derivante da illegalità e compulsività del gioco viene comunicato in maniera adeguata?

Uno dei problemi che hanno gli operatori sta nel riuscire a farsi percepire come “legali ed autorizzati” e di conseguenza “sicuri”. Purtroppo si tende a fare di tutt’un’erba un fascio. E’ bene ricordare come gli operatori autorizzati dallo Stato siano l’unica garanzia per un’offerta di gioco trasparente e controllata, con norme stringenti a tutela dei minori e delle fasce sociali più deboli. Solo attraverso gli operatori “concessionari” viene promossa una comunicazione all’utente rispettosa delle norme previste dal legislatore con garanzia di responsabilità. Illegalità e mancanza di attenzione al consumatore rappresentano un binomio inscindibile. Si può certamente fare ancora molto per migliorare, ma è bene dire anche che molto è stato fatto e si sta facendo.

Che cosa rappresenta il gioco per gli italiani? Una speranza, una scommessa, un'illusione?

Il gioco fa parte della cultura italiana e certamente alcuni giochi sono ormai radicati nelle tradizioni popolari, il lotto sicuramente è tra questi. Il gioco rappresenta un momento di libertà che come tale deve restare nei canoni della responsabilità e della consapevolezza delle persone. Vorremmo che rappresentasse il momento ludico degli italiani, un contesto epurato dagli operatori illegali e quindi pienamente sicuro e controllato.

La mafia investe anche sul gioco. Come si può contrastare questo fenomeno?

Vorrei ricordare un dato: nel 2002, secondo fonti della commissione finanze del Senato e della Guardia di Finanza, erano stimati in Italia circa 800 mila apparecchi "videopoker"clandestini (che come tali oggi non esistono più) con un fatturato di venti miliardi. Un giro di affari interamente gestito dalle varie mafie. Oggi ci sono sul nostro territorio circa 400 mila apparecchi da intrattenimento (le cosiddette slot machines), controllate e collegate in rete che generano circa 4 miliardi di entrate per lo Stato. Rivendichiamo con orgoglio come dal 2004 a oggi anche attraverso il nostro operato è stato possibile far emergere un settore fino ad allora clandestino, illegale e in larga parte in mano alla criminalità. Come operatori siamo consapevoli che non bisogna fermarsi. Attraverso il continuo lavoro in collaborazione con Agenzie Dogane e Monopoli oltre che con le forze dell’ordine è possibile continuare l’opera di contrasto del gioco clandestino. Noi saremo sempre in prima linea.

Esiste un gioco "buono" e uno "cattivo"?

Come in tutte le cose anche nel gioco il tema principe è la misura a cui però si deve accompagnare il controllo di qualità e l’origine delle “materie prime”. Recentemente nelle Marche hanno smantellato un sistema di bische clandestine, e l’azione delle Forze dell’Ordine è fondamentale per garantire la legalità, ma ogni giorno assistiamo purtroppo alla "comparsa" di centri di scommesse non autorizzati nei quali sono accettate puntate sottratte al monitoraggio istituzionale, rischiando anche di alterare il corso degli eventi sportivi. Questo non sarà mai "gioco buono", perché in esso manca qualsiasi principio di controllo, tutela dell'utenza e di salvaguardia degli interessi pubblici.



lunedì 22 luglio 2013

Sulla cosiddetta responsabilità, infine



di Angelo Villa, psicoanalista, Direttore scientifico Accoglienza e Lavoro 




Il male, la sua lettura. Dalla pratica quotidiana di incontro con soggetti disabili riprendo un esempio che, per ragioni di struttura, non può che presentarsi con costanza nella relazione con loro. Lara, una donna di quarant’anni con un ritardo mentale su base organica , una vita trascorsa tra istituti e centri socioeducativi, inveisce contro l’operatore che gestisce gli spazi lavorativi nella cooperativa presso cui si reca ogni settimana, negli ultimi anni. Un’attività di poche ore, alquanto semplice, svolta con ritmi più che blandi, tra pause e assenze, fattivamente supportata da volontari che collaborano in maniera attiva affinché la produzione giunga a buon termine.
Lara possiede un discreto bagaglio linguistico, specie se rapportata ai suoi compagni. Per quanto, in verità, non sempre riesca a rendere pienamente il significato dei termini che utilizza. In paese, si muove autonomamente. E’ amica di tutti e , in un certo senso, tutti gli sembrano amici. Lei si sbraccia a salutare le persone che incrocia per strada, gratificandole con enormi sorrisi e allegre pacche sulla spalla, puntualmente ricambiata. La cooperativa è , di fatto, la sua seconda casa. Ci tiene a venire, anche in quelli occasioni in cui il suo stato di salute non lo consiglierebbe. Impensabile farle cambiare idea. Da qualche mese, tuttavia, capita che talvolta faccia resistenza. Anche se in modo decisamente asistematico. I familiari sostengono che taluni giorni si irrigidisce e, in quel caso, risulta impossibile cercare di farla addivenire a propositi più accomandanti; in altri, invece, Lara pare contenta come al solito di andare in cooperativa. Chi vive fatica a comprendere le ragioni di tali mutamenti: l’unico indizio che la donna lascia trapelare quando si oppone all’uscir di casa è un certo rancore nei riguardi del responsabile del laboratorio di assemblaggio. Ma, perché? Cosa è successo tra i due, tenuto conto che, per altro, il rapporto tra i due si declina in un ambiente pubblico, alla luce del sole, davanti a altre persone?
Dopo un poco, il dire di Lara si avvita su sé stesso, e non per reticenza, essendo lei stessa estremamente loquace. Parlando anche con l’operatore incriminato, ascoltando le parole di altri individui , forse, non è così improbabile riuscire a ipotizzare una logica che spieghi la condotta della donna. Tuttavia, il punto non è questo. Che altri, infatti, s’impegnino nell’impresa allo scopo di approdare a una conclusione attendibile è auspicabile, oltreché necessario, ciò non toglie che Lara sia incapace di ricostruire l’ordine di una sequenza causale. In altri termini, non sa esprimere i motivi del suo malessere poiché non riesce ad articolare nel suo pensiero quel che nel comportamento dell’operatore le ha fatto male, giusto o sbagliato che sia. Come può allora dire quel che, mentalmente , non è nemmeno in grado di isolare?
La prima conseguenza che ne deriva è , a mio parere, di natura strettamente etica. Lara, si dirà, non sa gestirsi da sola fino in fondo , non possiede gli strumenti cognitivi indispensabili per comprendere, sottolineando così l’imprescindibilità della sua dipendenza dagli altri. Considerazione, per taluni versi, incontestabile che tuttavia mette in subordine la questione principale dal punto di vista della soggettività . Il fatto, cioè, che Lara in quanto disabile intellettiva è consegnato nelle mani degli altri, in virtù del suo stesso handicap. Lo è perché così gli impone la sua realtà clinica, innanzitutto, e continuamente. L’abitudine a cercare il palesarsi del soggetto sul piano delle sue potenziali esternazioni rischia, talvolta, di far dimenticare come la genesi stessa del suo istituirsi rinvii primariamente al processo di lettura (o , meglio ancora, di interpretazione) che il singolo promuove relativamente alla sua posizione nel discorso parentale e in quello degli altri. L’esprimersi ne discende a sua volta, in maniera più o meno diretta, come un effetto. E non il contrario.
Il confronto con il paranoico può forse servire a meglio chiarire il quadro. Nel suo delirio, infatti, quest’ultimo offre una lettura , per quanto distorta, di quel che gli sta accadendo , nel momento in cui è sopraffatto dall’angoscia. Lo stesso Freud, del resto, era giunto ad affermare come il delirio costituisse un tentativo di guarigione. Tesi illuminante e , per nulla, provocatoria. Mi limito ad aggiungere: ma che cos’è un delirio, se non una teoria sull’origine del male che schiaccia lo psicotico ? E non è un delirio, in quanto costruzione immaginaria, una messa in opera della soggettività?
Impattiamo qui con il nodo indistricabile che tiene bloccata Lara. Lei non può fornire una sua teoria sul male che la colpisce, ne è incapace e non, ovviamente, per sua colpa. Letteralmente, non sa , quindi, come orientarsi, come difendersi, come tutelarsi, come farsi aiutare. Agostino d’Ippona riteneva che il male non possedesse un contenuto in positivo, essendo solo l’assenza del bene. La psicoanalisi, si potrebbe dire, gli assegna invece se non proprio un contenuto, una causalità materiale, tale cioè da permettergli da conferire all’inconscio stesso uno statuto primariamente etico. La suddetta causalità inerisce il rendersi presente di quei moti o pulsioni distruttive che veicolano un godimento devastante , nella misura in cui inibiscono nel singolo l’esercizio della soggettività ai livelli minimali. Com’è noto, Freud additava l’orizzonte mortifero di un simile scenario nei termini di un aldilà del principio di piacere. Implicitamente sotto intendendo lo stretto rapporto che univa la nozione regolativa del principio, e quindi del limite, con quella del piacere, o eventualmente del dispiacere.
L’assenza di una teoria o anche solo di un’intuizione del male espone il disabile al godimento altrui, a una soddisfazione che tende a far saltare i principii che la limitano. Lo stesso ostentato miraggio dell’autonomia, occorrerà pur riconoscerlo, risponde più alla domanda espulsiva del cosiddetto normale che non a una veridica esigenza del disabile. Senza una costruzione, più o meno fantasmatica, che miri a mettere a fuoco l’origine di quel che fa soffrire , è proprio il disabile a ritrovarsi risucchiato nell’area di manipolazione degli altri, potenziale oggetto di godimento del tutto alienato e fuori dal suo controllo.

Il tragico e il religioso.
Da qualsiasi prospettiva si affronti la tematica dell’handicap grave non si può non riconoscere come una simile questione si costituisca, si articoli su un fondo che è e rimane di natura inconfutabilmente tragica. Dissimularlo è un’operazione di matrice ideologica che , in omaggio a un ottimismo forzato e di circostanza, non rende giustizia al dolore di chi si trova a vivere tali esperienze. Per definizione, una tragedia è una rappresentazione che mette in scena una situazione che non ha vie d’uscita. Come tale, essa si presenta hegelianamente come una sorta di contraddizione di termini: è una rappresentazione , nell’accezione teatrale del termine, che si misura con quel che gli resiste, vale a dire con l’ordine dell’impossibile.
Storicamente, al tempo della sua nascita in terra greca, la tragedia ha svolto una funzione essenziale in chiave politica, quale prima forma di autocoscienza collettiva. La rappresentazione della sfida che l’impossibile pone all’essere umano apriva la strada alla consapevolezza che la percezione della propria solitudine alimentava. Il dramma proprio alla presa dall’atto dell’impossibile è , nel contempo, infatti, l’altra faccia del delinearsi implacabile del confine che marca la separazione tra il mondo terreno e quello celeste, tra il regno del visibile e quello dell’invisibile. Un taglio si consuma, la tragedia invita a farsene una ragione, non foss’altro per consumare quel lutto e reperire una strategia per andare avanti, confidando sulle proprie forze…
In Eschilo, in Euripide, in Sofocle, la sofferenza cerca una risposta, una logica: “ quale misura c’è nel male?” (v. 236) , si chiede Elettra nell’omonimo dramma sofocleo. Le supplicanti di Eschilo elevano il loro lamento, la pulsione invocante di cui parla Xcz vi si trova esaltata. Al centro, in questo caso, vi si collocano storie di donne, “questo sciame femmineo” (v. 30), così come altrove, comunque, storie che tessono la trama dei legami sociali, talmente importanti e decisivi da mettere in secondo piano il proprio tornaconto personale. Come afferma lo stesso Edipo: “ Non m’importa, se ho salvato questa città “ (v. 443).
Il bene pubblico è l’orizzonte primo e ultimo sul cui sfondo i protagonisti della tragedia spendono sino in fondo la carta della loro esistenza, senza risparmiarsi, senza calcoli meschini, facendo leva sull’unico sentimento di cui un essere umano deve dar prova di possedere: l’onore. Impagabile collante che annoda indistricabilmente tra loro la dimensione dell’individuale , lambendo le vette dell’eroismo, e quella del collettivo, imparentandola immaginariamente alla retorica dell’ideale.
Ma, l’handicap che posto può occupare in tutto questo? La tragedia classica non ne fa parola e, forse, non per mancanza di motivi. Come può, del resto, misurarsi con l’onore chi vi è impedito ad accedervi, e non per via di conflittualità sociali? Quale posto può ritagliarsi nella città? La tragedia consuma lo strappo tra gli dei e gli uomini. Non tutti, ovviamente, ma quelli che ne possono sopportare eroicamente la sfida. Per i disabili la questione non si pone, la loro posta in gioco attiene una partita ancor più radicale, non quella della separazione, ma quella della sopravvivenza. Dopo Platone, lo riprecisa Aristotele nella “Politica”, per l’appunto: “ Quanto all’esposizione e all’allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare nessun bimbo deforme” .
Schizofrenia del tragico. Il dramma è nella realtà degli accadimenti, nelle vite generosamente condannate alla morte, orfano però di una rappresentazione che lo metta in scena, che lo recuperi a un discorso capace di legittimare uno stato di cittadinanza.
E’ , in questo senso, che la tragedia si scontra con il suo antagonista di sempre, l’avversario che le contende l’egemonia sul medesimo terreno: la spiegazione del male. Non senza i necessari distinguo. Il discorso che si oppone alla tragedia è quello religioso, specie liberato dal bazar politeista. La Genesi lo ribadisce, più volte, sin dalle prime righe. Ciò che Dio crea è buono. Il male non gli appartiene, non viene da lui. Sono le passioni degli uomini, il loro incommensurabile egoismo, la loro sfrenata cupidigia a produrlo. Da qui si può dedurne , nel nostro caso, come ha mostrato Vito Mancuso 1, che anche i disabili possano configurarsi come figli del peccato, la prova tangibile di una colpa da espiare. D’altro canto, poi, è però Dio stesso che si impegna a riprendere ogni creatura nel suo grembo. Dio padre, Dio madre, Dio entrambi. 2 Dio Altro e simile 3 , insieme.
Il discorso religioso offre una soluzione a un genere, quello della tragedia, essenzialmente laico o laicizzante, per quanto in letteratura non manchino tragedie caratterizzati in un senso religioso, da Manzoni a Claudel, tanto per fare qualche nome.
E’ con il Vangelo, in particolare, più che con la Torah o con il Corano, che tuttavia il discorso religioso orienta in maniera decisa e inequivocabile la sua sensibilità nei riguardi degli individui segnati dalla sventura. La limpida e rivoluzionaria retorica del Cristo non conosce eguali. Di fronte ad essa, lo stesso Freud sembra ritrarsi infastidito. La prescrizione “Amerai il prossimo tuo come te stesso” suscita in lui un senso di sorpresa e di disappunto. A ragione, la ritiene di un’epoca più antica del cristianesimo che la ostenta “come la sua più grandiosa dichiarazione, ma certamente non antichissima” 4. Affermazione che suona , quanto meno, paradossale, quasi fosse l’effetto di una rimozione non riconosciuta come tale. La prescrizione evangelica riprende, infatti, alla lettera
quanto già espresso nel celebre versetto del Levitico : “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv. 18,19) e che si ritrova, al fondo , anche nel Deuteronomio : “Tu amerai lo straniero come te stesso” (Dt. 10,19) o nei Proverbi : “ Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se è assettato dagli da bere” (Pr. 25,21). Cristo recitava le preghiere ebraiche, lo “Shemà Israel” , in particolare, il cuore stesso del giudaismo. Marco lo riferisce con chiarezza: “ “Qual’ è il primo di tutti i comandamenti?”. Rispose Gesù: “ Il primo è questo: Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è l’unico Signore…. Il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. Altro comandamento più grande di questo non c’è” “ (Mc 12, 28-31). Lo ricorda a più riprese lo stesso Spinoza, come il tema comune che in modo chiaro e semplice sintetizza il messaggio biblico.
Azzardo un’interpretazione: il mancato riconoscimento della matrice ebraica del motto evangelico, l’irritazione che ne consegue possono , forse, suggerire che l’idea che il recupero cristiano del monito biblico tende provocatoriamente a forzare i limiti dell’amore per l’altro, oltre ogni compiacenza narcisistica, aldilà di qualsivoglia riflesso speculare. Così, d’altronde, come si può ritrovare negli autori ebrei più “contagiati” dal pathos cristiano, quali Simone Weil o Lévinas. Lo amore, si sa, designa per altro un sentimento dai confini dilatati e indistinti: uno scrigno capiente dal fondo oscuro e malleabile, quasi un vaso di Pandora appena appena rivestito di seducenti illusioni. Sia come sia, nella tradizione cristiana il richiamo all’amore vuole disvelare la magia onnipotente di un sentimento capace di negare la tragedia sino alla provocazione estrema di trasformarla in un dono, come avrebbe scritto Testori o narrato Flannery O’ Connor . Il disabile può offrire il suo sventurato destino a un volto del Cristo, perché vi prenda carne, o, come potrebbe dire Tommaso d’Acquino, a Dio stesso, nella misura in cui ogni creatura non è che un’imitazione, ovviamente, secondo i limiti e le possibilità della propria natura. La carità traduce il significato intimo di una simile disposizione: all’origine è un’inclinazione nobile dell’essere, la teofania sensibile attraverso cui il divino si rivela agli uomini ( 1 Gv 4,8 ). E’ solo la sua degradazione a ridurla al fare, al rito ipocrita dell’elemosina, alla cattiva coscienza dell’assistenzialismo.
In quest’amore dato, in quest’amore caritatevole, o che così dovrebbe o vorrebbe essere, oblativo, accudente, la rappresentazione che connota la posizione del cosiddetto “normale” è quella di una figura ritratta nell’atto premuroso in cui si china verso l’altro, anche a costo di immolarvi la vita. L’emblematicità del gesto ambisce , forse, a tacitare i fantasmi che lo popolano; l’affetto che lo governa tende a un movimento che mira a un’azione essenziale, quella del proteggere. L’amore come compimento della legge, Paolo docet, l’amore come legge. Assoluto, gratuito.
Un paradigma che suona alquanto materno, poco virile agli occhi delle esuberanze nicciane. Un essere che si spende per un altro, convinto dell’ineluttabilità della sua missione; un cerchio sembra racchiudere chi si prodiga e chi è l’oggetto delle cure. Come se l’amore, o quel che passa sotto quel nome, erigesse un’invisibile fortezza tutt’intorno. Una barriera contro il mondo, contro il rigetto che gli ributta indietro. Se il Cristo, il Cristo in croce incarna , infatti, questo simbolo della carità,
promuovendo quelle imitazioni della sua figura che tanta fortuna ebbero nei secoli scorsi, è chi gli sta a fianco a fornire al fondo la versione più toccante e sofferta della carità stessa. L’arte, come pure la devozione popolare, la celebra nella sua forma sensibile, capace di parlare alla babele delle lingue e dei linguaggi, come una parola che tutti possono intendere.
Se Cristo è abbandonato dal padre, quello che soggiorna nei cieli ( Mt, 27,46) , così non è della madre, quella che sta in terra. Le rappresentazioni della “mater dolorosa” si sprecano, nell’immaginario religioso, poiché ridanno voce a quello che l’inconscio, individuale e collettivo, recita. Il padre, quello con l’iniziale minuscola o maiuscola può aver abbandonato il figlio, non la madre, comunque. Quale sia il figlio, qualsiasi malefatta abbia mai commesso.
La carità o quel che appare di quel sentimento è una forma estrema di un amore che sembra appagarsi di sé stesso, non pretendendo nulla in cambio. O, forse, al contrario, richiede un prezzo così alto, da non poter nemmeno esser preso in considerazione. Il chinarsi comporta il piegarsi verso terra , verso chi sta in basso, verso chi giace in prossima del suolo. E’ l’opposto dell’innalzarsi. Il gesto disegna nell’aria una linea di curvatura che abbozza la forma di un cerchio,
il sogno irrealizzato di una pienezza asintoticamente mancata. Come se quel compassionevole chinarsi ambisse a inglobare in un unico corpo colui che lo compie e l’altro, l’essere umano al quale quella dedizione è indirizzata. O, perché no?, anche il contrario. Forse, infatti, è chi si dispone a quell’atto che domanda di perdersi in esso, di annullarsi nel dolore che il sofferente gli offre come una soluzione alla sua esistenza, come un rimedio nobile e insperato a un male che lo consuma dall’interno, senza concedergli tregua. Chi può indicare con puntigliosa esattezza dove finisce il disagio dell’uno e inizia quello dell’altro? Simbiosi, si usa dire. L’etimologia greca del termine ne declina con chiarezza il senso: “che vivono assieme”. O, probabilmente bisognerebbe aggiungere, che soffrono assieme e che , come tali, congiuntamente muoiono. Come se entrambi condividessero, boccone dopo boccone, quel pane amaro, indigeribile. Così la persona che si fa oggetto della carità altrui diventa una calamita che trascina e trasforma nel suo vortice anche chi compie l’atto. Il contagio marchia la persona pietosa, quando la sua azione è sincera, autentica.
Un segno indelebile, a tal punto che sia colui che umilmente si china non pare esser meno degno di carità di colui sul quale è piegato. Sia l’uno che l’altro si danno allo sguardo del mondo, invisi alla sua pretenziosa armonia, quasi che , forti della loro solitudine, desiderassero violentarla, ben sapendo di non riuscire nemmeno a scalfirla. Un grido contro un muro.
Antonia Guarini in “La mia vita accanto a Michele che non si sveglia mai” 5 riprende la testimonianza di una madre, Isa, che si prende cura del figlio in coma, per dieci anni, senza che lui possa fare un cenno che lo richiami all’esistenza. Isa e Michele sono i due volti di un unico dolore, la voce che parla, perché non può farne a meno, e quella tace, perché non può fare altrimenti:
la testimonianza di una presenza che non può allontanarsi, l’esserci di un uomo per cui il tempo si è fermato. La commozione manifesta quel disvelarsi dell’anima che l’incontro con la sventura può giustamente accendere. Quale ferita tocca più a fondo le corde della sensibilità? Quella di Michele? Quella di Isa? Come separare l’una dall’altra?
La complicità che accomuna le due figure assegna al cosiddetto normale una disposizione che trascende i limiti di una supposta regolazione. Responsabilità e amore si confondono tra loro, incalzati dall’emergere di una pressante e inconsolabile verità , come la tragicità dell’evento costringesse a far saltare ogni ordine di misura. Chi può d’altronde obiettare a Isa, alle sue legittime inquietudini? “ Io ho tutte le maglie strappate, le dita sono tutte storte perché se ti acchiappa , l’osso ti fa uscire fuori! E se perdo la pazienza io, che sono la mamma, come potrà un giorno una persona estranea , fare tutto questo? No, non ci voglio pensare. Io mi devo tenere su, devo stare bene, non posso invecchiare, che ne sarebbe di Michele? No, non lo posso pensare in un ospedale buttato lì. Se lo trascuri pure per un giorno, è finita. Sono io che devo controllare tutto, che devo ricordarmi di tutto. Basta un momento di distrazione e cominciano i rossori in tutte le parti del corpo. Niente ci vuole a formarsi le piaghe da decubito .Basta mezza giornata che il materasso ad acqua si sia rotto e noi non ce ne accorgiamo, ed è finita. Tutti i giorni così , dalla mattina fino alla sera a mezzanotte, per dieci lunghi anni. Mai un giorno diverso, mai un giorno di festa”6
Quante storie racconta e riassume quella di Isa ! La sua tragedia materializza, ciò nonostante, un dramma privato, nel senso letterale del termine: privato cioè di quel rapporto con la città, con la comunità che costitutiva l’essenza stessa della rappresentazione greca. Lì, era la solitudine degli uomini davanti agli dei a promuoverne l’autocoscienza, qui è la solitudine tra gli uomini a scandire la sofferenza degli individui. Loro allontanano Isa dal cerchio della loro convivialità, ma, chissà, forse è anche lei che non desidera che altri s’inseriscano nel rapporto esclusivo che ha creato con il figlio. La simbiosi si presenta, al fondo, come una solitudine a due, riparo dal mondo e custodia della sofferenza, e , proprio per questo, spia di un appello muto o urlato cui nessuna città, anche volendo, sarebbe forse in grado di rispondere. E’ quel che può spingere una madre a cercare quella che la Kristeva denomina come “un’oasi di carità” 7 o, ma non è in alternativa, un interlocutore Altro che trasformi la sua domanda in preghiera, il suo dolore in un oscuro risarcimento. Rivincita del religioso, come luogo di apertura e di chiusura , nel medesimo tempo, come inconscia liberazione di quell’aspirazione a trascendere che una tragica realtà, orfana per di più di un palcoscenico, di un pubblico, a stento tratteneva dentro di sé.
Lungo queste vie, la responsabilità che il normale sembra paventare nei riguardi del disabile predilige la lingua del cuore, i suoi umori e le sue ferite. L’incomprensione dello stato in cui versa il disabile fornisce alle lamentazioni che animano la denuncia della persona che ne prende il carico il loro reiterato contenuto. Incomprensione che rileva dell’ostilità o dell’indifferenza che gli altri
nutrono nei suoi confronti o, implicitamente, nei riguardi della coppia simbiotica stessa. Difficile, in questo caso, dissociare la responsabilità dall’azione alla quale pare istintivamente legarsi, quella del proteggere, quella della necessità del farlo. Simile al gesto rapido con cui, di fronte a un pericolo, le madri traggono contro il loro corpo, quello del bambino piccolo, senza che affetto o violenza si distinguano nettamente tra loro.
1) Vedasi il suo testo – Il dolore innocente
2) Vedi meschonnic
3) Vedi genesi
4) Sigmund Freud- Il disagio della civiltà – in Freud Opere, Boringhieri, Torino, 1978, vol. 10, p.597
5) Antonia Guarini – La mia vita accanto a Michele che non si sveglia mai – Poiesis- Alberobello, 2011
6) Idem, p. 18
7)
Julia Kristeva e Jean Vanier – Il loro sguardo buca le nostre ombre . Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso – Donzelli, 2011, p. 84


tratto da: www.lecconotizie.com

giovedì 18 luglio 2013

Horcynus Orca Film Festival , SIAMO IN FINALE!!!!!

 CIACK SI PROIETTA! Durante il Festival Horcynus Orca (27 luglio - 6 agosto 2013 | Messina) saranno proiettati i video vincitori del concorso SO.DOCU  e altri scelti dal direttore artistico Franco Jannuzzi, membro della giuria del concorso. 


Ricordate il Concorso SO.DOCU? Era solo un anno fa quando la Rete CGM e altri soggetti esterni si sono impegnati nella realizzazione dei 40 video che hanno partecipato al Social Documentary festival, il concorso cinematografico dedicato ai temi del sociale che si iscrive all'interno di un progetto più ampio che è quello della Mediateca Sociale.


I video vincitori del concorso e altri video scelti dal direttore artistico Franco Jannuzzi saranno proiettati all' Horcynus Orca Film Festival presso il parco omonimo che si trova a Messina (Capo Peloro) nei giorni 27 luglio e 4 agosto


Ecco la lista dei video che saranno proiettati durante le due giornate del Festival: 
  • (Co) Operazione Pummarola (Miglior video) – Cooperativa Coress | Reggio Emilia
  • Convenzione ONU: da ciascuno il suo (Miglior interpretazione del tema scelto) – di Umberto Lucarelli
  • Al centro (Miglior fotografia)  -  di Marida Augusto, Simplice Ngongang Feunyep, Max Hirzel | Biella
  • Giulietta e Rome’ (Miglior regia) – di Francesco Brollo
  • Stonato melodioso(Premio alla creatività) – di Lorenzo Scaldaferro
  • Farsi un corpo – Cooperativa Accoglienza e Lavoro | Molteno (LC)
  • Prove di volo - Lab80
  • Scritto a voce  - di Elisabetta Angelillo

(Guarda tutti i video che hanno partecipato al concorso)

A breve sarà caricato il programma sul sito della Fondazione Horcynus Orca: http://www.horcynusorca.it/

Per info: so.docu@consorziocgm.it

mercoledì 17 luglio 2013

Appello ai sindaci. L'azzardo si può fermare

Per il Consiglio di Stato le sale gioco non sono esercizi come gli altri

di Lorenzo Maria Alvaro

L'ordinanza che ribalta il Tar e dà ragione al Comune. «Un segnale importante» per Anna Scavuzzo, consigliere comunale milanese

275527 Consiglio di Stato   anno giudiziario
«È un segnale molto importante perchè è il riconoscimento della necessità da parte del Comune di agire sulla tutela della salute del cittadino, anche in tema di gioco di azzardo». Così Anna Scavuzzo, presidente del gruppo consiliare Milano Civica del Comune di Milano ha salutato l'ordinanza con cui il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del Tar che aveva stabilito come il Comune non potesse decidere sugli orari d'apertura delle sale gioco (la sentanza in allegato).

«Il Consiglio stabilisce che gli enti locali hanno il dovere di occuaprsi di questi temi. Non si tratta di azioni moralistiche o di condanna del gioco. Sono posizioni che hanno il merito di mediare tra il lecito interesse imprenditoriale e la salute del cittadino», sottolinea Scavuzzo.

L'ordinanza poi ha anche altri meriti, non ha dubbi Scavuzzo. «Credo che il riuscire a distinguere quello che può fare il Comune su questi temi sia importante. Le case da gioco, è evidente, non sono semplici attività imprenditoriale. Per questo è giusto che si intervenga sugli orari di apertura al pubblico e sulla posizione al'interno del tessuto urbano. Il Consiglio questo lo mette nero su bianco».

Ma forse la cosa più importante che con questa decisione è stata chiarita è che non esista una mancanza di normativa. «Non c'è, a quanto pare, quel vuoto normativo che ha portato in questi anni il Tar a dar sempre ragione alle case da gioco. Come si è sempre pensato, stando alla normativa vigente, le sale slot non sono considerabili esercizi commerciali tout-court, perchè la fidelizzazione che nasce tra clientela ed esercente va molto al di là di quella tipica». 


tratto da VITA

giovedì 11 luglio 2013

L'eroina torna a fare paura

E' con orgoglio che pubblichiamo questo contributo di Riccardo Carlo Gatti che studia da anni l'evoluzione dei fenomeni di dipendenza ed abuso di sostanze nel nostro Paese, anche in senso previsionale; cura il sito www.droga.net; è attivo su Twitter @RiccardoGatti; dirige il Dipartimento Dipendenze della ASL di Milano

 

L'eroina torna a fare paura

di Riccardo Carlo Gatti, Medico, Psicoterapeuta e Specialista in Psichiatria, Direttore del Dipartimento delle Dipendenze della ASL di Milano
Già da un po’ di tempo ho come la sensazione che qualcosa si stia muovendo nel mercato dell’eroina. Forse nulla sta realmente cambiando: è possibile che questa sensazione  sia semplicemente la conseguenza di una maggiore attenzione da parte dei media nei confronti di notizie, come le overdose, che, per un certo periodo, sembravano essere sparite dalle cronache. Potrebbe però anche trattarsi di una … mia maggiore attenzione al fenomeno, collegata ad una certa sensibilità per le nuove tendenze in questo settore che ho coltivato in questi anni. La mia ipotesi, tutta da verificare, è che, dopo un periodo di relativa stasi, gli oppiacei stiano (in modo diverso a seconda dei luoghi e delle situazioni) ritornando “di moda”.
Sopra quanto scrivevo nel settembre 2005. Poi ho scritto altre note sullo stesso argomento che sono raccolte nello speciale “il ritorno dell’eroina”. Il lavoro previsionale di Prevo.Lab ha confermato le mie intuizioni. Anche se le previsioni iniziali sono state riviste nelle versioni successive (visto che la crisi economica ha improvvisamente diminuito la domanda per i beni di consumo, droghe comprese), abbiamo osservato che l’eroina, da sostanza dimenticata, messa ai margini e, comunque, sempre presente tra i consumi di droghe, ridiventava una possibilità concreta ed in espansione almeno, in alcune parti d’Italia, con un futuro prevedibile in moderata crescita.
La cosa che mi preoccupa di più è assistere ad una sua progressiva espansione tra gli studenti. Negli anni 80 e 90 gli studenti che l’assumevano erano pochi e, quei pochi, abbandonavano rapidamente il corso degli studi per finire in un qualcosa che era efficacemente definito “tunnel della droga”. Quando però, ancor prima, il fenomeno eroina era iniziato, non aveva, da subito, interessato solo o soprattutto persone ai margini. Per questo, già nel 2005, parlavo di oppiacei che tornano “di moda”. Ogni diffusione di droghe ha bisogno di essere supportata una visione del consumo che faccia “tendenza”. Lo studente può essere un buon “testimonial”.
Contemporaneamente alla nostra situazione, oggi, tutto il Nord America cerca di porre rimedio ad una epidemia di abuso di oppiacei (N.B. anche l’eroina è un oppiaceo) nati come farmaci per la terapia del dolore: da soli stanno provocando più emergenze di eroina e cocaina messe assieme (!!!).  Ciò mentre negli USA e in Canada l’eroina torna nelle strade come “sostitutivo” di quei farmaci ma anche come “nuova droga” a basso prezzo per tutti. In Russia e zone limitrofe, dunque molto vicine a noi, sono ormai milioni i consumatori di questa sostanza che, assieme ai suoi derivati più pericolosi, sta facendo danni disastrosi.
Pensavamo che l’intervento occidentale in Afghanistan potesse anche affrontare il problema oppio e derivati ma, invece, lo ha peggiorato. Addirittura una epidemia di dipendenza da oppiacei, sebbene da noi se ne parli poco, si è diffusa tra le truppe di occupazione e tra i “contractors” che supportano le azioni belliche. L’eroina afghana parte verso l’Europa, l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa ma la sensazione è che arrivi anche al Nord America, assieme a quella proveniente dall’America Latina; quella prodotta nel Triangolo d’oro asiatico alimenta i mercati cinesi, est-asiatici e dell’Oceania.
Attenzione! Alla fonte sia la produzione che i prezzi sono in aumento ed è quindi pensabile che la domanda di eroina sia prevista in crescita e che questo ne faccia aumentare il valore.
Passata l’ebbrezza che a cavallo del secolo vedeva le droghe proposte a tutti con tecnologia da “grande distribuzione” con una miriade di consumatori occasionali forniti da spacciatori occasionali in un mercato in continua espansione, la riduzione dei consumi dettata dalla crisi ha obbligato tutti a fare una “spending review”, organizzazioni criminali comprese, con la necessità di un maggior controllo delle catene di distribuzione, dei territori e… dei consumatori. C’è necessità di stabilità e di sicurezza per il futuro. Chi investe in droga deve essere garantito negli utili e non è rassicurato da un mercato dove, con i prodotti sintetici, chiunque può improvvisarsi produttore e distributore verso clienti per cui “una droga vale l’altra”. Come se non bastasse ci sono intere Nazioni che incominciano seriamente a valutare la possibilità, della sostituzione del monopolio illegale della cannabis con uno legale, spostando gli utili dalle mafie agli Stati ed a “liberi imprenditori”.
Certe mutazioni nei consumi e nelle abitudini sono irreversibili, altre tendenze legislative sono ancora tutte da discutere ma se, nel frattempo, le organizzazioni criminali non riusciranno a ricreare una base solida di consumatori abituali di droga, non riusciranno nemmeno a rassicurare gli investitori ed a mantenere una rete di vendita diffusa, sostenuta da una logistica (dalla produzione, al magazzino, al trasporto verso il consumo) importante ed onerosa. Non è detto che questa operazione venga fatta in Italia. Ci sono interi Paesi emergenti e continenti (l’Africa) dove certi investimenti potrebbero essere più redditizi ma, a meno che l’Italia non perda completamente di interesse economico per i trafficanti di droga, l’eroina rimane un prodotto importante anche per le sue caratteristiche intrinseche.
Indipendentemente da come venga assunta, infatti, l’eroina rapidamente genera, a differenza di altre droghe, la necessità di aumentare la dose o la frequenza di assunzione solo per avere lo stesso effetto. Il passo successivo, la dipendenza, quindi, è più facilmente inducibile; il consumo ripetuto ma occasionale è più improbabile. Raggiunto lo stato di dipendenza, l’astinenza “fai da te” è molto avvertibile anche a livello fisico e difficile da controllare considerando che… basta una dose di eroina per ritornare a “stare bene”. Anche per chi intraprende un percorso di cura, spesso lungo e complesso, le ricadute sono frequenti: almeno due persone su tre ritornano a foraggiare i loro spacciatori di fiducia.
Per questi motivi l’eroina proposta con metodi “push” anche a chi consuma saltuariamente altre sostanze,  rimane un modo efficace per tentare di controllare economie, territori e persone e, soprattutto in periodi di crisi, rappresenta un investimento sicuro e con buone prospettive di sviluppo nel tempo perché in grado di contrastare attivamente e competitivamente i mercati alternativi alle droghe tradizionali.
Per questo anche se l’eroina non tornerà più ad essere “La Droga”, in un mondo globalizzato che anche in questo campo presenta molteplici alternative illegali ma anche legali, potrebbe ri-guadagnare spazio nel nostro Paese. Alcune azioni, come quella di riproporre sul mercato eroina bianca assieme alla brown, differenziando qualità e prezzi, sembrano andare in questa direzione. Se l’iniziativa fosse intrapresa con decisione ed avesse successo, produrrebbe non pochi danni: teniamo presente la facile diffusione che hanno oggi le sostanze illecite, rispetto ai tempi passati, e che esiste una popolazione giovanile che manca di “anticorpi” perché ha idee molto vaghe rispetto a cosa abbia significato la diffusione epidemica della sostanza nel secolo scorso.
Certamente la situazione generale nell’Europa occidentale, per ora, sembra stabile ed in molte regioni italiane non ci sono segnali consistenti di particolare allarme. Comprendo, quindi come possa sembrare anacronistico parlare di “vecchie” droghe proprio in un momento in cui tutti sembrano allarmati o, forse, attratti da nuove forme di dipendenza da “nuove” droghe o anche da dipendenze comportamentali. Credo, però, che ci siano molti motivi per essere vigili rispetto alla possibilità di una diffusione epidemica dell’abuso di oppiacei (farmaci compresi) in generale e dell’eroina, in particolare.
Già oggi, in alcune zone del Paese, l’eroina torna a far paura e non è più un fenomeno residuale. Fino a qualche anno fa nessuno lo avrebbe pensato.

tratto da: www.lecconotizie.com
e da: www.droga.net