martedì 23 settembre 2014

PIU' BEVI PIU' TI PREMIO

ECCO LA PRESA DI POSIZIONE DELLA NOSTRA COOPERATIVA DI FRONTE ALL'ASSURDA E VERGOGNOSA INIZIATIVA ORGANIZZATA DALL'U.S DI BOSISIO PARINI CON IL PATROCINIO DEL COMUNE E DELLA CROCE ROSSA.




Apprendiamo oggi che il Comune di Bosisio Parini ha patrocinato un evento denominato “Ranbir (poca corsa tanta birra)” organizzato dall’unione sportiva locale (http://www.usbosisio.it/ranbir), che si è svolta lo scorso sabato.
In pratica in questa gara podistica nella quale per ogni birra bevuta  venivano abbonati abbuonati 4 minuti dal tempo complessivo finale. Nel manifesto della gara gli organizzatori ci fanno sapere – bontà loro –“che bere le birre è facoltativo”.
La nostra cooperativa che ha collaborato negli anni scorsi con il Comune di Bosisio, esprime profonda amarezza e preoccupazione per il sostegno ad una iniziativa che incentiva l’uso e l’abuso di bevande alcooliche. In modo particolare riteniamo particolarmente grave che si affianchi l’alcool allo sport da sempre veicolo di benessere alla persone.
La scrivente cooperativa porterà le proprie riflessioni all’interno del tavolo degli Enti accreditati dipendenze che gestiscono gli interventi in ambito preventivo, di cura e di reinserimento nell’ambito delle tossicodipendenze e dell’alcoolismo, per proporre un documento che miri ad evitare che nel futuro che vengano organizzate manifestazioni di questo tipo.



mercoledì 30 aprile 2014

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ACCOGIENZA E LAVORO DI MOLTENO, DA SEMPRE AL SERVIZIO DELL'ALTRO

martedì 4 marzo 2014

Una idea indecente su droga e carcere

Ospitiamo ancora una volta Riccardo Carlo Gatti (Medico, Direttore Dipartimento Dipendenze di Milano  e curatore del sito www.droga.net). Si tratta di un testo di particolare interesse e attualità.
Ringraziandolo per la collaborazione vi auguriamo buona lettura

 

Una idea indecente su droga e carcere

L’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza.
“La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo” per l’Italia ed è “una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”, è stato il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
I giudici della Corte europea hanno constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che il problema della mancanza di spazio nelle celle non riguarda solo i 7 ricorrenti: la Corte ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle dove avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. La richiesta europea all’Italia è quindi anche quella di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti. (brani tratti da La Repubblica.it 8.1.2013).


caleidoscopioCi hanno provato tutti a dire che la situazione, così, non va e che le carceri italiane sono sovraffollate e inumane. E’ ancora il Presidente della Repubblica durante una sua recente visita a San Vittore a dire, inoltre: «La responsabilità del trattamento e della risocializzazione non può essere affidata solo all’amministrazione penitenziaria ma deve coinvolgere tutte le articolazioni sociali: scuola e famiglia, istituzioni religiose, associazioni di volontariato, mondo del lavoro». E su questo il presidente ha insistito: «Al mondo imprenditoriale e della cooperazione sociale, pur nell’attuale momento di crisi, va chiesto adeguato supporto» (Fonte Corriere.it).
Ben sappiamo, oltre a ciò, che molte persone, detenute, hanno anche problemi di dipendenza patologica e potrebbero essere curate in luoghi alternativi al Carcere. Percorsi alternativi alla detenzione, in molti casi, non solo sarebbero auspicabili ma sono, di fatto, un diritto negato: la normativa che li permette esiste. Per quanto ci si possa sforzare a realizzare setting dedicati, infatti, il carcere non è un luogo di cura e … nemmeno ci assomiglia. Se una persona, dopo aver compiuto reati, sconta una pena ma rimane tossicodipendente, le sue possibilità di uscire dal circuito criminale, una volta uscita dal carcere, sono molto prossime allo zero.
E’ bene considerare il tutto con attenzione perché, indipendentemente dalle idee che ciascuno ha rispetto al significato della carcerazione, per chi ha commesso un reato, la detenzione, i processi e tutto ciò che direttamente o indirettamente fa parte dell’ “esecuzione della pena”, rappresenta un insieme di attività molto costose. Così, al di là di ogni considerazione più elevata, eticamente ed organizzativamente, se il tutto non porta ad alcun cambiamento … sono soldi buttati. Di questi tempi, si tratta di un lusso che non ci possiamo permettere.

E’ utile anche sapere che discorsi, che pure si sentono fare, del tipo “al posto di incarcerare i tossicodipendenti per reati minori … mettiamoli in comunità terapeutica”, non sono tecnicamente percorribili per tre motivi: 1) considerando le pene da scontare, non ci sono fisicamente posti a sufficienza; 2) le comunità terapeutiche non sono “magazzini” dove scaricare la gente, nel presupposto che “tutto è meglio del carcere”, ma luoghi dove realizzare un percorso che richiede un alto livello di condivisione per essere efficace; 3) se tutte le comunità fossero occupate (solo) da persone che stanno scontando una pena, gli interventi residenziali dedicati a persone che non hanno mai compiuto reati diventerebbero impossibili.
Apparentemente, dunque, non sembra esistere soluzione al problema ma, a mio parere, non è così. Il Presidente della Repubblica dice: «Al mondo imprenditoriale e della cooperazione sociale, pur nell’attuale momento di crisi, va chiesto adeguato supporto». La richiesta è corretta: di fronte ad una emergenza ognuno deve fare la sua parte, ma qui non siamo solo di fronte alla necessità di dimostrare una buona volontà che già esiste ma di costruire una organizzazione ad hoc che manca. In una situazione difficile, è necessario, quindi, non solo chiedere supporto, ma anche darlo. In pratica occorre costruire un sistema riabilitativo esterno al carcere che sia in grado di produrre risultati efficaci e, nello specifico di ciò che mi occupo professionalmente, di curare contemporaneamente le dipendenze patologiche. Ma per costruire la possibilità di ampliare i centri residenziali e semiresidenziali, di preparare personale specializzato per costruire nuovi programmi terapeutico-riabilitativi, di costruire una continuità tra lavoro residenziale e lavoro territoriale e, poi, di rendere disponibili, sempre a livello di territorio possibilità reali di reinserimento sociale occorrono nuove risorse. Dove trovarle?
Forse già ci sono, almeno in parte, a patto di orientarle diversamente.

Sono, infatti, convinto che se fossero messe a disposizione, per ogni detenuto da inserire nei percorsi terapeutico – riabilitativi, le stesse risorse giornaliere complessive, attualmente necessarie per mantenerlo in carcere e nel circuito penale, la soluzione si troverebbe. Occorrerebbe attenzione, bisognerebbe lavorare e programmare evitando semplificazioni ed ingenuità, ma ciò che manca oggi, per riabilitare le persone, non è l’esperienza né la dedizione e nemmeno la volontà: manca una “imprenditoria sociale” che abbia risorse per dare un respiro sufficiente all’azione in questo ambito e c’è bisogno di tempo per progettare, preparare, formare ed organizzare. Rendendo più fluidi alcuni percorsi di non carcerazione ed orientando la spesa diversamente, la risorsa a disposizione di ciascun soggetto, per attuare un programma, potrebbe essere molto più alta di quanto oggi è messo a disposizione.
Ho la sensazione che l’idea della alternativa alla pena fosse già viziata in origine da un “non detto” che aveva a che fare con il contenimento delle spese, senza alcun investimento. Si è ragionato, cioè, su “benefici di legge” che rendevano possibile evitare il carcere “iso-risorse”,  mantenendo cioè lo stesso budget per il Sistema penale, addirittura scaricandone parte dei costi sul Sistema sanitario. Se è così si è trattato di un errore di programmazione il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui la spesa sanitaria veniva ridotta da successive manovre di “spending review”, i SERT hanno ridotto il personale, e quindi la loro capacità erogativa, e le Comunità non hanno potuto aumentare la loro recettività mentre molti programmi riabilitativi “ponte” sono rimasti progetti a termine, più o meno sperimentali, finanziati con fondi sempre più incerti. Nel frattempo, sempre per ridurre le spese, ciascun Carcere si è trovato a custodire un maggior numero di detenuti. Un concetto di “efficienza contenitiva” che fa a pugni con l’articolo 27 della Costituzione che enuncia: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Risultato: in carenza di un sistema riabilitativo e terapeutico efficiente, chi delinque in relazione ad una dipendenza patologica (o con una dipendenza patologica come concausa) ha ben poche possibilità di sottrarsi dal circuito criminale, che diventa la sua reale fonte di sussistenza. L’impianto dell’alternativa alla pena viene utilizzato, anche in modo molto strumentale, per garantirsi condizioni generali migliori di quelle della detenzione (dai detenuti) e come bacino di compensazione per l’affollamento delle carceri (dal sistema penale) ma rimane carente proprio per la mission curativa propria del Servizio Sanitario, che se ne assume gli oneri. Sia l’azione penale che l’azione di cura perdono, così, efficacia costruendo di fatto una “REVOLVING DOOR” tra sistema di controllo e sistema di cura che finiscono per sovrapporsi in modo poco efficiente e, probabilmente, poco efficace.

La mia “idea indecente” è molto semplice: visto il numero di detenuti che avrebbero diritto di poter accedere a misure alternative alla pena, per affrontare la tossicodipendenza, si potrebbero chiudere alcune carceri rafforzando il sistema dei SERT dal punto di vista socio – riabilitativo ed aumentando la capienza delle Comunità Terapeutiche e dei Centri Diurni, con le risorse risparmiate dalla dismissione di quelle carceri. Non dimentichiamo che, parlando di droga, ci riferiamo ad almeno un detenuto su quattro. Poniamo pure che la nostra popolazione di riferimento, su cui è effettivamente possibile realizzare programmi di cura, sia più ridotta per motivi diversi: in presenza di un circuito terapeutico – riabilitativo efficiente e ben organizzato si potrebbe dismettere un carcere ogni 5 o 6.  Non si tratta di un processo semplice ed avrebbe bisogno di investimenti e di fasi sperimentali per una attuazione progressiva e la realizzazione di programmi ad hoc ma … se mai si comincia è chiaro che si continuerà a parlare di una  situazione carceraria insostenibile, senza far nulla di concreto per cambiarla.
Di Riccardo Carlo Gatti, www.droga.net

martedì 11 febbraio 2014

Lo sport è integrazione sociale. L’Armani Junior Program


a cura di Christian Broch, Presidente Accoglienza e Lavoro

Incontriamo oggi Paolo Monguzzi, che lavora nel dipartimento marketing, eventi e progetti speciali della Pallacanestro Olimpia EA7 Milano
Buongiorno Paolo, per prima cosa, grazie per la disponibilità. Partiamo da te. Chi sei e cosa fai?
Lavoro da 8 stagioni per l’Olimpia, cominciando come l’ultimo degli assistenti allenatori del settore giovanile. Pian piano la mia crescita interna mi ha portato dietro le scrivanie in un ambito di lavoro che mi piace molto e per cui ho studiato.
Cos’è l’AJP?
io tifo positivoArmani Junior Program è un progetto di ampio respiro. È partito 6 anni fa come un programma di affiliazione alla Pallacanestro Olimpia Milano per 20 società del territorio milanese. Negli anni siamo cresciuti molto: oggi AJP conta 81 società affiliate, un progetto per le scuole elementari, un progetto per le scuole superiori e tanti eventi di promozione della pallacanestro e dei valori di Olimpia.
Perché la squadra italiana più titolata di pallacanestro e uno il gruppo Armani ha deciso di investire in questo progetto?
Perché l’Olimpia è un patrimonio di storia e valori che va comunicato. La presenza della pallacanestro sui giornali e tv italiane è marginale ma possiamo sfruttare questo deficit a nostro vantaggio: il grande lavoro di Armani Junior Program è sempre stato quello di avvicinare il più possibile il campione al giovane appassionato. In questo dobbiamo essere più forti del calcio, nel cercare di far sentire un appassionato di basket vicino alla più alta espressione cestistica in città.
Una società sportiva come l’Olimpia mira sempre all’eccellenza. Come si può mettere insieme l’aspetto agonistico e quello dell’attenzione al giocatore meno bravo?
Non ne farei una questione di bravo o meno bravo. Per noi è importante creare e coltivare nuovi tifosi, affezionati alla pallacanestro e a Olimpia. L’aspetto tecnico è importante ma, se pensiamo ai numeri, l’eccellenza tecnica riguarda neanche lo 0,5% del movimento.
Qualche giorno fa ho assistito con un gruppo di bambini che alleno ad una partita dell’Olimpia all’interno della scuola del tifo. E’ stata un’esperienza molto interessante… Centinaia di bambini festanti a cantare, a sventolare bandiere, felici, spensierati, coinvolti e consapevoli, che lo sport – giocato o guardato – è soprattutto rispetto. Non pensi che sia qualche cosa da pubblicizzare e da veicolare per rendere lo sport migliore?
Penso che sia un progetto molto semplice, non abbiamo inventato niente di particolare. Di certo ciò che ci contraddistingue è la grande continuità data al progetto. Spesso sento parlare di idee simili ma altrettanto spesso vedo progetti che nascono più per essere mostrati sui giornali o in tv piuttosto che garantire una continuità educativa ai ragazzi.
Olimpia Milano significa anche impegno nelle scuole. Ci spieghi cosa fate?
All’interno delle scuole milanesi siamo presenti con due progetti. Il primo, GIOCO DI SQUADRA, è rivolto alle scuole elementari ed è un percorso di quattro incontri su collaborazione, competizione e rispetto delle regole. Il secondo progetto, inaugurato quest’anno, si chiama Olimpia@School ed ha coinvolto 8 classi di 8 istituti superiori milanesi. Ogni classe è in gara con le altre e sviluppano un percorso nella quale sono stimolati nel diventare una piccola società sportiva.
Nelle iniziative nelle scuole partecipano anche i giocatori… Mi dici la reazione degli studenti? E i giocatori come vivono queste attività?
I giocatori durante le sessioni con gli studenti sono davvero la ciliegina sulla torta. Riescono a catturare l’attenzione dei ragazzi, partecipando attivamente ai programmi e soprattutto mettendosi sullo stesso piano dei ragazzi. In questo tipo di attività devo dire che gli americani hanno una marcia in più.

martedì 14 gennaio 2014

Alcune riflessioni attorno le famiglie contemporanee (3° parte)

di Luca Ciusani

Se il discorso sociale odierno sembra puntare verso un’indifferenziazione dei ruoli parentali, le parole dei genitori sembrano invece portare la questione su un altro piano. Effettivamente ascoltando i genitori che abbiamo avuto modo di incontrare, abbiamo avuto l’impressione che a fronte di una tanto legittima quanto presunta parità dei diritti e dei doveri tra i coniugi, ci sia all’interno di ogni nucleo familiare una suddivisione particolare delle diverse funzioni che i genitori sono chiamati a svolgere nel processo educativo della prole.
caleidoscopioParlando di funzioni si punta ad isolare la specifica posizione che un genitore svolge all’interno della famiglia ed in particolare rispetto alla crescita dei figli. L’utilizzo del termine funzione, preso a prestito dalla logica matematica, rende conto degli effetti che la presenza del singolo genitore è chiamata a dover promuovere. In un certo senso è come se l’adulto prendesse posto nell’equazione familiare come operatore che mette in relazione gli altri membri della famiglia al fine di produrre degli effetti, educativi anche. Detto altrimenti, la funzione rimanda alle necessità dello sviluppo dei figli e a ciò che il genitore incarna rispetto a tali necessità.
Chi accudisce i bambini? Chi pone le regole? In che rapporto sono i genitori uno rispetto all’altro? Queste domande non possono evidentemente trovare una soluzione esaustiva nel concetto della parità di diritti e doveri. La diffusa risposta “lo facciamo entrambi” da una parte dice dell’importanza della condivisione delle scelte e degli interventi operati in famiglia, ma dall’altra sembra lasciare molte ombre su come realmente si articolino i diversi aspetti di tali interventi.
Ci sembra che non sia sul piano del diritto e della parità che le differenze possano essere colte; esse rimandano infatti contemporaneamente alla realtà dell’operato dei genitori ed allo stile con cui tale operato è interpretato dai singoli. I rapporti all’interno delle famiglie sono particolari, unici e si annodano rispetto alle diverse soggettività presenti nel nucleo.
E’ la madre che si occupa principalmente di accudire i figli? Forse, ma non è certo. E’ il padre che si occupa di porre limiti e regole? A volte, ma non sempre. I genitori si desiderano reciprocamente? E’ auspicabile, ma non è sempre così.
L’alchimia richiesta è complessa ed ammette ogni genere di interpretazione. Ciò che si può però isolare, all’interno di questa molteplicità, sono le diverse funzioni che i membri di una famiglia devono necessariamente ricoprire.
In questa prospettiva la cosiddetta parità crediamo sia da porre sul lato della necessità che le funzioni svolte portano con sé. L’uguaglianza si connota allora non tanto rispetto ad un’equa suddivisione delle incombenze, quanto piuttosto per il riconoscimento dell’importanza che le diverse, e quindi ineguali, funzioni portano con sé.
Ciò che conta crediamo sia il risultato, in modo abbastanza indipendente da chi sia a ricoprire l’una o l’altra funzione. A titolo di esempio pensando a ciò che spesso si sente dire a proposito della ”assenza dei padri”, ci si potrebbe chiedere se la presenza fisica sia indispensabile allo svolgersi della funzione cosiddetta paterna. Un padre lontano da casa non può ugualmente svolgere, nelle parole che la madre spende verso i figli, la sua funzione nell’essere per esempio un riferimento per la madre stessa? “Il papà è lontano ma ci vuole bene”, questa semplice frase non potrebbe dare testimonianza di come la presenza possa essere veicolata dalle parole? Il rapporto tra la madre ed il padre, che tale enunciato delinea, non credete che risponda alla mancanza fisica del padre con una presenza ancor più sentita, perché fa da testimonianza del rapporto di desiderio di tale padre verso la sua famiglia? “…è lontano ma ci vuole bene…”.
Come si diceva è un’alchimia difficile che, oggi forse più di ieri, si deve inventare e reinventare secondo modalità inedite, non precostituite.