martedì 19 novembre 2013

Alcune riflessioni attorno le famiglie contemporanee (1^ parte)


 Luca Ciusani, Psicologo Accoglienza e lavoro Molteno

Un più di libertà. Non fa più notizia dire che la società è cambiata: lo dicono i giornali, la tv, internet, è insomma sulla bocca di tutti e ormai anche lo stravolgimento cui la struttura familiare è incorsa negli ultimi decenni non fa più scalpore. E’ prima di tutto una constatazione, un’esperienza comune che le statistiche, ad esempio quelle divulgate dall’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia1, non mancano di confermare.
famigliaLa famiglia, alla luce dei dati, mostra una nuova poliedricità: si forma, si scioglie, si riforma, si allarga, si allunga e chi più ne ha più ne metta. Ciò che è certo è che non è più la struttura stabile, con caratteristiche precise, che è stata un tempo. Oggi la definizione stessa di famiglia appare problematica. Sui dizionari appaiono definizioni più generali, imperniate attorno ai legami delle persone che la compongono e i vincoli sanguigni, padre, madre e prole, non sono più sufficienti per individuare il concetto. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente? Le leggi sul divorzio, che hanno scardinato l’indissolubilità del matrimonio, o i pax, che hanno riconosciuto che una famiglia può essere composta da individui dello stesso sesso ed essere comunque considerata tale, hanno segnato il passo.
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: non si tratta di fare qui una valutazione moralistica, o peggio di giocare a dire che si stava meglio quando si stava peggio; semplicemente la nostra è una presa di coscienza dei cambiamenti che, volenti o nolenti, hanno investito l’attuale società e conseguentemente la famiglia come struttura sociale.
Se la famiglia patriarcale sembra essere un ricordo vintage, una sorte non diversa spetta a quella spinta a contrapporsi ad un modello così rigido, unico e prestabilito, che infiammava il dibattito degli anni settanta e ottanta. La valenza alternativa che la convivenza aveva rispetto al matrimonio ad esempio, sembra oggi perdere di peso. Al di là delle convinzioni personali, è il discorso sociale ad aver subito le modificazioni sostanziali. In altre parole a livello individuale si può ancora essere convinti della maggiore opportunità di una scelta piuttosto che di un’altra, ma a livello collettivo le indicazioni su come orientarsi appaiono molto più labili, a volte anche confuse. Su quale base scegliere il matrimonio o la convivenza in assenza di una norma sociale forte a cui aderire o contro la quale contrapporsi?
Sono i giorni in cui l’azione ideologica, politica e culturale che si fondava su una forte contrapposizione verso quei modelli prestabiliti, spesso aggettivati con termini quali “retrogradi”, “repressivi”, “bigotti”, “borghesi”, sembra aver perso la sua mission. L’impegno sociale e politico delle nuove generazioni ne è la cartina al tornasole. D’altra parte, scardinati i riferimenti collettivi viene a mancare ciò contro cui contrapporsi, emanciparsi. Q Quindi?
“Se Dio è morto tutto è permesso”2, annuncia il celebre paradosso dei fratelli Karamazof. Come in un presagio, Dostoevskij azzarda ciò che oggi appare come assodato: ognuno è libero di fare ciò che vuole. La morte di Dio spoglia infatti ogni valore dell’assolutezza, mostrandone la fragile base umana. L’ effetto è un “più di libertà” di cui spesso il soggetto è vittima e che si esaurisce nell’interrogativo “libertà da cosa?”.
Effettivamente la libertà trova la sua connotazione nella relazione con un altro termine: sono libero perché prima non lo ero, sono libero perché adesso le cose sono cambiate; ma che accade se non vi è più un riferimento che imponga un limite con cui confrontarsi e dal quale eventualmente emanciparsi verso la libertà? Quali sono le peculiarità di una condizione in cui la libertà sia, per così dire, già data?
Prendiamo a titolo di esempio il confronto-scontro generazionale che ha animato l’Italia dagli anni sessanta in poi, e mettiamolo in rapporto con la tendenza, ormai epidemica, dei figli a ritardare il momento di separazione dalla famiglia di origine. Certo, si dirà che le differenti condizioni economiche odierne non consentono facilmente questo passaggio; ma rimane il dubbio, almeno a noi personalmente, che questo fenomeno risenta anche di altri fattori. Rimane l’interrogativo di come trovare la propria strada da soli, senza un altro presente, in funzione del quale differenziarsi. L’educazione dei figli è l’ambito privilegiato di questi effetti. Come può un figlio arrivare a separarsi dai genitori se essi non rappresentano un termine dal quale poter prendere le distanze?
Il più di libertà, di cui si diceva prima comporta effetti inediti, a volte eclatanti. In questo senso, la questione che appare maggiormente paradigmatica rispetto al processo in cui i modelli forti in ambito sociale sembrano venire meno, è quella relativa all’identità sessuale. La cronaca ci è testimone, sono sempre più diffuse le pratiche chirurgiche e legali per il cambiamento del proprio sesso. Possedere una certa coppia di cromosomi, XX o XY, non è una garanzia sufficiente rispetto all’identità sessuale: uomini in corpi di donne e donne in corpi di uomini.
Se in passato il discorso familiare e sociale promuoveva le linee maschio-uomo-marito-padre e femmina-donna-moglie-madre secondo una temporalità definita e difficilmente mutabile, oggi le cose sono cambiate. E’ il singolo che si trova a potersi-doversi porre l’interrogativo rispetto alla propria identità di genere; ciò che era implicito, almeno a livello sociale, diventa ora negoziabile.
La mancanza di modelli forti, di ideali, ha come conseguenza la parcellizzazione delle identità e quindi la necessità per ogni singolo di contrattare la propria esistenza individualmente, senza riferimenti collettivi.
Le crisi della religione e della politica cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, crediamo debbano essere lette con la stessa logica. Gli ideali che identificavano i valori sociali cui attenersi, riassumibili nella triade Dio, Patria e Famiglia, appaiono anacronistici di fronte al relativismo e alla globalizzazione che caratterizzano l’epoca contemporanea.
Rispetto alle prime due, Dio e Patria, sorgono domande impensabili anni addietro, ma oggi del tutto legittime, anzi politically-correct. Quindi, ci si può chiedere a quale Dio ci si riferisca quando si parla di Dio? A Jahvè, Allah, Buddah? Una prospettiva ormai molto diffusa è che la religione sia un costrutto dell’uomo e che l’attaccamento ad una religione piuttosto che ad un altra sia fondamentalmente determinato dal luogo di nascita. Coerentemente con questa prospettiva si è portati a dire che le varie fedi afferiscano comunque allo stesso Dio universale, che nelle varie religioni trova diverse modalità di manifestarsi. Saremmo stati così espliciti su una pubblicazione destinata alle scuole anni fa?
E poi l’altra domanda, quale Patria? Italiana, Europea, Mondiale, Universale? Lo stato sembra aver perso il blasone di istanza sovraindividuale garante del benessere dei cittadini. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma è un’evidenza che il riconoscersi nei valori tradizionali della patria appare alquanto difficoltoso. Da una parte il graduale ma progressivo disimpegno dei cittadini nei confronti dello stato (ne è dimostrazione l’assenteismo dalle urne elettorali), dall’altra la ricerca di riferimenti diversi rispetto alla patria, testimoniano di come questa non svolga più elettivamente questa funzione.
Un meno di ideale e un più di libertà individuale, così si potrebbe riassumere l’insieme di modificazioni che hanno investito il nostro tessuto sociale. Al di là di ogni considerazione di ordine morale, crediamo sia importante tener conto di queste riflessioni, per cercare di comprendere le condizioni con cui i singoli individui si trovano a confronto. Perché ciò che conta in fondo è l’effetto che queste trasformazioni hanno sulle singole persone e sulle singole famiglie. Ogni cambiamento porta con sé delle conseguenze, possibilità e difficoltà; ci siamo quindi chiesti, alla luce di queste considerazioni, cosa significhi oggi diventare genitori.

mercoledì 6 novembre 2013

Biscotti, Spending, Politiche internazionali e tossicodipendenze

di Riccardo Carlo Gatti, Medico, Psicoterapeuta e Specialista in Psichiatria, Direttore del Dipartimento delle Dipendenze della A.S.L. di Milano
(articolo tratto da: www.droga.net)


Leggiamo: “Oreo, il biscotto neroe bianco formato da due amaretti a sandwich, crea dipendenza”. Uno studio dell’Universita’ del Connecticut pubblicato lo scorso 15 ottobre spiega il meccanismo della dipendenza per alcuni alimenti zuccherati e grassi. Nello studio, diretto da Joseph Schroeder, professore di neuroscienze, con l’aiuto di studenti 13/15enni, due gruppi di topi sono stati separati. In un gruppo, i topi potevano scegliere, alla fine di un labirinto, tra degli Oreo e dei dolci di riso e potevano utilizzare tutto il tempo che volevano. Nel secondo gruppo, cosi’ punto di domandacome prima, ma la scelta era tra della droga (morfina o cocaina) e una soluzione di acqua salata. Risultato: i topi del primo gruppo hanno passato la maggior parte del tempo vicino ai biscotti al cioccolato mentre quelli del secondo gruppo dove c’era la droga. Gli Oreo sono allora desiderati cosi’ come avviene per la cocaina?” (tratto da ADUC).
Forse qualcosa non funziona nella traduzione dell’articolo o nel ragionamento. Così come è mi sembra che i topi preferiscano i biscotti ai dolci di riso e la droga all’acqua salata ma forse non ho capito bene.
Esiste anche un’altra versione della notizia: The study, which will be shown at the Society for Neuroscience’s annual conference next month, involved placing an Oreo cookie on one side of a maze and a rice treat on the other. The rats spent most of their time going for the Oreo. The researchers also performed a similar test, but instead of an Oreo cookie they replaced it with morphine and in another test they used cocaine. In both cases the rats preferred the narcotics to the rice cake. (Fonte DotTech.org) (Lo studio, che sarà presentato alla conferenza annuale della Società di Neuroscienze il mese prossimo, consisteva nel mettere un biscotto Oreo su un lato di un labirinto e una delizia di riso, dall’altro. I ratti hanno trascorso la maggior parte del loro tempo per raggiungere il biscotto Oreo. I ricercatori hanno eseguito anche un test simile, ma hanno sostituito il biscotto Oreo con la morfina e in un altro test hanno usato cocaina. In entrambi i casi i topi preferivano i narcotici alla torta di riso
L’esperimento, quindi, potrebbe anche dimostrare che, a quei topi, non piace la torta di riso.
Naturalmente bisognerebbe leggere lo studio per capirne qualcosa di più ma la maggior parte delle persone che hanno ricevuto la notizia dai media non lo leggeranno mai e ricorderanno solo che la cocaina … è come i biscotti: piace anche ai topi.
Il tutto fa parte di comunicazioni che hanno il risultato complessivo di “sdoganare” sempre di più le droghe all’interno di un insieme di notizie che ci bombardano, facendoci credere che siamo tutti dipendenti da qualcosa.
Così, lo zucchero, improvvisamente, diventa pericoloso come la cocaina mentre vengono proposti sul mercato dolcificanti, derivati da piante coltivate, che costano quanto quella droga. Ogni giorno scopriamo che la cannabis fa bene a una malattia diversa in modo che, riassumendo, ci si ricordi che fa bene e basta o, almeno, non fa male. Per le altre droghe siamo ufficialmente tranquillizzati dal Governo rispetto al fatto che il loro uso diminuisce (salvo che, guarda caso, per la cannabis) mentre, marginalmente, ci si accorge che ce ne sono sempre più sul mercato. Chi mai le userà?
Che succede, dunque? A mio parere siamo in una fase speculare a quella che, a fine anni ’80 – inizio anni ’90,  vedeva le droghe come un male assoluto. Allora la comunicazione spingeva alla mobilitazione contro questo male, trasformava in eroi tutti coloro che lottavano contro la droga e chiedeva allo Stato di fare di più. Oggi, in Italia, tutta l’attenzione è spostata sulla “ludopatia”, sul gioco d’azzardo patologico, e gli Amministratori fanno a gara anche per limitare fisicamente la presenza delle SLOT machine. Evidentemente  si pensa che solo la loro presenza possa portare molte persone alla rovina. Gli spacciatori di droga, invece, sono dappertutto (anche sulla Rete) ma questo, in termine di mobilitazione politico – sociale, sembra diventato, improvvisamente, un problema minore. Evidentemente il ragionamento è che ad una macchinetta mangiasoldi non si resiste mentre le droghe sono come i biscotti: si possono mangiare e, con un po’ di attenzione, si riesce anche a mantenere la linea. Nel frattempo gli esperti che sparano, ormai,  percentuali tra il 2 ed il 6 % della popolazione per ciascuna dipendenza, sembrano complessivamente voler dimostrare che il problema non è la dipendenza, che, a far le somme riguarda tutti, ma come viene vissuta.
Tutto ciò avviene nel mondo occidentale, quello, per intenderci, che direttamente o indirettamente gravita attorno all’influenza degli Stati Uniti. Difficile dire se ci siano connessioni, ma effettivamente, negli USA, in tema di tossicodipendenze, c’è stata una sorta di rivoluzione da quando i decessi per l’abuso di farmaci hanno superato quelli di eroina e cocaina messe assieme e da quando l’atteggiamento proibizionista di alcuni Stati, rispetto alla Cannabis, è cambiato. Il tutto rende il fronte della “guerra alla droga” come quelle linee fortificate che, mantenute per anni perfettamente attive e funzionanti, hanno una apparenza minacciosa e consistente, sino a quando non vengono aggirate, diventando, improvvisamente, inutili perché il fronte non sta lì dove sono state costruite ma … da un’altra parte.
Il problema è che sulla linea fortificata di questa guerra noi abbiamo schierato tutto, compreso il sistema di cura costituito da Servizi Tossicodipendenze e Comunità Terapeutiche che, non per nulla, qualcuno considera parte più di un sistema di controllo sociale che di intervento terapeutico. Aggirato il fronte della guerra alla droga ed in tempi di Spending review, la tentazione di considerare anche questa parte del tutto come qualcosa di superato e inutile si farà forte.
Prima o poi qualcuno si chiederà a che servono Ser.T. e Comunità terapeutiche e la risposta non sarà più così scontata come un tempo. In questo caso, ad esempio, più che le ideologie conteranno i risultati. Oggi, senza dubbio, il sistema delle dipendenze è ingaggiato soprattutto sul tema della cronicità ed in questo non c’è nulla di strano. In generale il Servizio Sanitario Nazionale spende la maggior parte delle sue risorse per la cura di patologie croniche. Il rischio, tuttavia, è che, gradualmente, il sistema delle dipendenze, aggrappato alla cronicità, perda la sua funzione di cura, mantenendo quasi esclusivamente quella di contenimento e di assistenza dove, forse, organizzazioni diverse da quelle tipiche della cura, potrebbero avere una migliore efficacia di intervento.
Insomma, una volta crollato il fronte della “guerra alla droga”, Ser.T. e Comunità potrebbero avere ancora senso all’interno del Servizio Sanitario Nazionale solo dimostrando i loro risultati in termini di cura. Il problema è che, attualmente, hanno grandi difficoltà a farlo. Salvo eccezioni non sono, infatti, “culturalmente” pronti ad una prassi operativa che comprenda l’esplicitazione delle performance reali in questo senso.   La stessa teoria “scientifica”, per anni recitata a memoria e solo recentemente messa parzialmente in discussione, che la tossicodipendenza sia una patologia cronica e recidivante, non ha aiutato.
Che accadrà dunque? Si rinuncerà a costruire una “clinica delle dipendenze patologiche” in dinamico divenire e ci si limiterà a curare chi ha patologie mentali gravi che comprendono una dipendenza? Tutto ciò che ha a che fare con prestazioni educative o assistenziali uscirà dall’ambito di azione del Servizio Sanitario? Al momento è difficile dirlo anche se alcune linee di tendenza in questa direzione sembrano delinearsi. Certamente il settore sarà chiamato a ridefinirsi ed a rendere conto internamente ed esternamente in modo più preciso e dettagliato di ciò che fa, di come lo fa e con quali risultati.
Vedo il tutto come qualcosa di irrinunciabile e positivo.
L’importante è che durante questo percorso le ragioni ideologiche, politiche ed economiche esterne al sistema che ne hanno determinato l’esistenza in tempi di guerra alla droga non ne determino, ora, la dismissione con il cambio di strategie che nulla hanno a che fare col curare o con il prendersi cura. Leggendo tra le righe di notizie che paragonano la cocaina ai biscotti e che ogni giorno inventano una nuova patologia scopriamo che le dipendenze patologiche e l’abuso di sostanze non sono certo in contrazione ma rivelano nuovi drammatici risvolti che di volta in volta, di luogo in luogo, sono più o meno considerati in virtù di ragioni politiche e di interessi commerciali non sempre chiari ma, purtroppo, determinanti. Forse lo zucchero sarà anche peggio della cocaina ma la notizia non può nascondere il problema reale che negli Stati Uniti le morti per farmaci antidolorifici oppiacei abbiano superato quelle di cocaina ed eroina messe assieme. Invece, siamo distratti dai biscotti e per essere più precisi, dalla crema che contengono che, evidentemente, piace molto ai topi ma anche ai media e magari anche a ciascuno di noi.
Concludendo: abbiamo parlato di guerra alla droga di nuove politiche e del destino del sistema di intervento e, forse, ora non avete voglia di ulteriori ragionamenti e nemmeno di droga o di farmaci antidolorifici ma, magari, di biscotti … si. Per questo la comunicazione è una delle anime del commercio e contribuisce anche a definire i nostri desideri, le nostre decisioni e le nostre azioni. L’importante sarebbe riuscire a capire a favore di chi o di cosa … ma questo è un altro discorso. Forse.