venerdì 18 marzo 2011

DICONO DI NOI...

E' con gioia e con emozione, che pubblico il ricordo che la nostra amica (ed ex collega) Mildred ha di noi.
E' stato un tuffo nel passato, che mi ha fatto sentire un po' più giovane, che mi ha emozionato e commosso.
Grazie e mille, cara amica,
Christian Broch




Sono passati tanti anni ma ricordo benissimo il giorno del primo colloquio alla comunità. Ero molto emozionata, il primo lavoro vero dopo anni di studio ed esperienze tra volontariato e tirocini vari. A metà strada già ero convinta che non avrei mai accettato il posto. Troppa strada da fare, troppo lontano, troppo costoso in benzina. Poi ho visto le montagne, spettacolari per me che arrivavo dai palazzi di Milano, mi sembrava di andare in gita. Quando sono arrivata non ero sicura di essere nel posto giusto; il Resegone come sfondo, i cavalli intorno, le serre e il giardino con tutti i gerani, non poteva essere una comunità per tossici e delinquenti. Mentre parcheggiavo già mi dicevo che se mi avessero offerto molti soldi forse ci avrei pensato… Il colloquio con Sergio Rivolta, un vero incantatore. Mi ha raccontato quello facevano in comunità, la serra, la casetta, il giardino e poi un po’ della storia di Amelia e di come ha fondato la comunità. Un giro per la comunità e io mi ero già innamorata del posto. Certo c’erano i tossici delinquenti, un vero dilemma. Io ero giovane alla prima esperienza lavorativa vera, avevo paura di non essere all’altezza della situazione ma ero anche attratta dalle parole di Sergio. Ho deciso: proviamo poi si vedrà se non sono all’altezza mi licenzieranno e se non mi piace mi posso sempre licenziare. Ci sono rimasta più di quattro anni.
Il primo giorno ero molto emozionata, avevo in testa tanti dubbi ma avevo anche tanta voglia di fare. Sergio mi ha presentato al gruppo dei ragazzi a tavola dopo pranzo. Mi sono sentita gli occhi di venti persone che mi facevano la radiografia. Ho alzato gli occhi e davanti a me c’erano venti uomini alcuni molto più grandi di me, tossici, delinquenti e in astinenza sessuale. Mi si è gelato il sangue. Poi finito il pranzo con l’educatore Christian e i ragazzi siamo andati a giocare a ping pong. Non lo sapevo ma su quel tavolo ci avrei passato ore e sarebbe diventato uno strumento di lavoro molto importante per me. Grazie a quel tavolo ho iniziato a vedere gli ospiti della comunità come delle persone in carne e ossa e non solo come nella mia fantasia. Ho conosciuto le loro storie e mi sono emozionata per l’intensità con cui alcune di queste mi sono entrate dentro. Rimaneva quella domanda: cosa gli dico ad un uomo di quarant’anni che ha vissuto esperienze di ogni genere? Cosa gli posso insegnare io che sono giovane e ho sempre vissuto una vita agiata senza problemi? In seguito sono riuscita a dare una risposta grazie all’aiuto dei colleghi che mi spiegavano cosa e come fare le cose, come rapportarmi, cosa dire e cosa non dire, ho conosciuto meglio la loro psicologia, i loro meccanismi e questo mi ha portato a rispondermi. Io avevo una cosa che a loro mancava e che chiedevano. Ero portatrice sana di una vita positiva. Sapevo stare al mondo in modo positivo, affrontavo i problemi di tutti i giorni in modo concreto e senza fughe. A loro mancava la prospettiva per un futuro migliore e non sapevano guardare al domani in modo positivo. Io si. Da qui è iniziato il tutto. Da questa semplice costatazione. È stato duro scontrarsi con la quotidianità delle cose. La verità è che la maggior parte dei ragazzi era ingabbiato in un passato troppo difficile. I problemi con le famiglie, la vita di strada, il carcere, li aveva resi troppo chiusi, piegati su se stessi, incapaci di guardarsi e di guardare le cose intorno a loro. Alcuni erano in comunità solo con l’idea di far calmare le acque, di riposarsi un po’. Alcuni per non stare in carcere. Alcuni perché non avevano altro posto. Alcuni sono rimasti una notte e poi sono andati via. Alcuni per cambiare.
Passavo le giornate a parlare con loro, mi facevo raccontare le loro storie, i come e i perché di una vita vissuta in questo modo. Tutti i momenti della giornata erano da cogliere perché le loro barriere si abbassavano solo raramente e bisognava essere pronti a cogliere gli attimi. Ricordo di colloqui interminabili in ufficio dove parlavano, parlavano e io ascoltavo. Ho ascoltato tante falsità, tante bugie. Mi mostravano sentimenti che non gli appartenevano, rimorsi che non avevano, emozioni stereotipate, raccontavano di futuri non loro. Spesso si raccontavano in modo strumentale in modo da avere un tornaconto personale che poteva essere il permesso di uscita, la sigaretta in più, la telefonata. Ci sono cascata la maggior parte delle volte. Poi però si giocava a ping pong e abbassavano la guardia. I migliori confronti li ho avuti dopo una partita a ping pong. Nasceva cosi, in allegria, la giusta dimensione del confronto. Diventavo per loro una vera persona con cui parlare e non solo l’educatrice da fregare. Ho giocato davvero tanto a ping pong. Intorno a quel tavolo si riusciva a ricreare una gioia di vita che avevano dimenticato. Ci siamo fatti tantissime risate. Certe volte è stato d’aiuto anche per stemperare tensioni del gruppo dei ragazzi. Litigate e dissapori sono stati risolti così intorno a quel tavolo.
Mi ricordo del tempo passato nella casetta dei lavori. Amavo particolarmente quel luogo, mi piaceva lavorare con i ragazzi ma non sempre ci riuscivo. La situazione più classica era che io entravo e iniziavo a lavorare, poi qualcuno di loro sentiva l’imminente bisogno di parlarmi per raccontare qualcosa di importantissimo e finiva che ne io ne il ragazzo lavoravamo. Al momento sembravano cose importanti. Io stessa giustificavo il ragazzo davanti al gruppo. Raramente sono state cose davvero importanti il più delle volte era la poca voglia di lavorare e io ci cascavo. Ancora oggi però quando guardo le spazzole delle macchine che lavano la strada mi tornano i mente quelle ore passate nella casetta e mi chiedo se arrivano da Molteno. I lavori in casetta erano noiosi e ripetitivi; prendi il pezzo, mettilo sotto la macchina, schiaccia il bottone, mettilo nello scatolone. Finito! Il tutto centinaia di volte. I ragazzi che si lamentavano perché si sentivano sfruttati; “lavoriamo senza prendere soldi”. Dopo qualche mese, se si impegnavano, li promuovevamo responsabile dei lavori. Si accendeva una luce di orgoglio nei loro occhi che li spingeva a impegnarsi di più. I nuovi arrivati vedevano che potevano guadagnare dei privilegi raggiungendo quella posizione e cercavano di impegnarsi. Uscire per le consegne, rapportarsi con le ditte era motivo di gratificazione che li ripagava del lavoro svolto. Mi piaceva condividere con loro uno spaccato di realtà. Certe volte cercavo di pormi non come loro educatrice ma come collega di lavoro. Ci raccontavamo il film visto in tv, o della partita di calcio. Si parlava di musica e a volte anche di politica era un modo per far vivere in modo positivo il “sacrificio” del lavoro. Alla fine si finiva sempre con qualcuno che mi diceva: “tu lavori qui per mille euro al mese facendo sacrifici e fatica, io facevo una rapina o spacciavo e guadagnavo più di te.” Oppure “io non ho mai pagato una bolletta, con quei soldi andavo a ballare”. Mi sorprendevo come andavano fieri delle loro azioni. Tra di loro si raccontavano di come avevano rubato quello o fatto quell’altro. Quello da ammirare era quello che riusciva a far girare più soldi in una notte. Tutti gonfi di orgoglio raccontavano; poi li mettevo a confronto con la realtà. Il carcere, la mancanza di una casa, la salute compromessa. Cercavo di fargli vedere le conseguenze delle loro azioni e di fargli prendere veramente consapevolezza di questo. Sapere fare un lavoro umile e ripetitivo faceva la differenza tra l’uomo tossico e l’uomo capace di integrarsi nella società e segnava l’inizio di un futuro migliore.

Per il mio lavoro in comunità devo ringraziare lo staff presente. Se sono riuscita a portare avanti il lavoro lo devo agli insegnamenti e al sostegno dei colleghi. Ho conosciuto persone che hanno messo il cuore e l’anima nel lavoro, sempre fatto con passione. Quando sono entrata a far parte dell’equipe della comunità gli operatori erano una famiglia in senso stretto. Quasi tutti avevano legami parentali o amicizie di lunga data ma, dopo poco, mi sentivo anche io parte della famiglia. Mi hanno insegnato non solo a essere una brava educatrice ma mi hanno fatto crescere come persona. Ci sono stati momenti molto difficili tra noi. Certe volte tornavo a casa piangendo per gli scontri duri che c’erano, ho detto me ne vado non so quante volte. Ma poi ci si chiariva e si andava avanti. Tra gli operatori ho trovato anche conforto nei momenti difficili della mia vita privata e sostegno in quella professionale. Alcuni di loro sono diventati amici che risento con gioia ed emozione. Oggi ripenso con nostalgia quelle riunioni d’equipe interminabili. Si iniziava alle 10.00 del mattino e fino alle 18.00 si stava li a parlare di questo e quello, analizzando, studiando, progettando. Le caratteristiche di ognuno di noi trovavano sempre spazio all’interno delle discussioni, altre volte ci facevano perdere dentro un bicchiere d’acqua. Lungo il tavolo dell’ufficio le posizioni erano sempre quelle. Io, alla mia destra Christian in ginocchio sulla sedia, con affianco Sbrogiò che scarabocchiava il foglio dell’ordine del giorno; alla mia sinistra Andrea con la penna in mano e affianco Claudia. Sempre quelle, era un rito. Gli altri operatori che intervenivano alle riunioni trovavano spazio lungo il tavolo ma non hai nostri posti.
Ho visto tanti ragazzi andare via, abbandonare il programma, rinunciare. Altri sono andati via per ritornare. Altri sono morti. Qualcuno è riuscito a trovare l’equilibrio interiore che gli permette di vivere senza l’abuso di droghe e di alcool. Qualcuno ha trovato lavoro, una compagna e si è creato una famiglia propria. Questi ragazzi hanno trovato nella comunità lo spazio per rimettere insieme i pezzi della loro vita e gli strumenti necessari a progettarne una nuova. Sono felice di aver fatto parte della loro storia.
Dopo quattro anni sono andata via. La mia è stata una scelta difficile. La comunità stava cambiando. Per vari motivi sono state fatte delle scelte progettuali che richiedevano un impegno che non mi sono sentita di affrontare. Sono andata via dalla comunità ma ho lasciato un pezzo di me tra quei muri e spero anche in tutte le persone che ho incontrato lungo questo cammino.
Mildred

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