lunedì 22 luglio 2013

Sulla cosiddetta responsabilità, infine



di Angelo Villa, psicoanalista, Direttore scientifico Accoglienza e Lavoro 




Il male, la sua lettura. Dalla pratica quotidiana di incontro con soggetti disabili riprendo un esempio che, per ragioni di struttura, non può che presentarsi con costanza nella relazione con loro. Lara, una donna di quarant’anni con un ritardo mentale su base organica , una vita trascorsa tra istituti e centri socioeducativi, inveisce contro l’operatore che gestisce gli spazi lavorativi nella cooperativa presso cui si reca ogni settimana, negli ultimi anni. Un’attività di poche ore, alquanto semplice, svolta con ritmi più che blandi, tra pause e assenze, fattivamente supportata da volontari che collaborano in maniera attiva affinché la produzione giunga a buon termine.
Lara possiede un discreto bagaglio linguistico, specie se rapportata ai suoi compagni. Per quanto, in verità, non sempre riesca a rendere pienamente il significato dei termini che utilizza. In paese, si muove autonomamente. E’ amica di tutti e , in un certo senso, tutti gli sembrano amici. Lei si sbraccia a salutare le persone che incrocia per strada, gratificandole con enormi sorrisi e allegre pacche sulla spalla, puntualmente ricambiata. La cooperativa è , di fatto, la sua seconda casa. Ci tiene a venire, anche in quelli occasioni in cui il suo stato di salute non lo consiglierebbe. Impensabile farle cambiare idea. Da qualche mese, tuttavia, capita che talvolta faccia resistenza. Anche se in modo decisamente asistematico. I familiari sostengono che taluni giorni si irrigidisce e, in quel caso, risulta impossibile cercare di farla addivenire a propositi più accomandanti; in altri, invece, Lara pare contenta come al solito di andare in cooperativa. Chi vive fatica a comprendere le ragioni di tali mutamenti: l’unico indizio che la donna lascia trapelare quando si oppone all’uscir di casa è un certo rancore nei riguardi del responsabile del laboratorio di assemblaggio. Ma, perché? Cosa è successo tra i due, tenuto conto che, per altro, il rapporto tra i due si declina in un ambiente pubblico, alla luce del sole, davanti a altre persone?
Dopo un poco, il dire di Lara si avvita su sé stesso, e non per reticenza, essendo lei stessa estremamente loquace. Parlando anche con l’operatore incriminato, ascoltando le parole di altri individui , forse, non è così improbabile riuscire a ipotizzare una logica che spieghi la condotta della donna. Tuttavia, il punto non è questo. Che altri, infatti, s’impegnino nell’impresa allo scopo di approdare a una conclusione attendibile è auspicabile, oltreché necessario, ciò non toglie che Lara sia incapace di ricostruire l’ordine di una sequenza causale. In altri termini, non sa esprimere i motivi del suo malessere poiché non riesce ad articolare nel suo pensiero quel che nel comportamento dell’operatore le ha fatto male, giusto o sbagliato che sia. Come può allora dire quel che, mentalmente , non è nemmeno in grado di isolare?
La prima conseguenza che ne deriva è , a mio parere, di natura strettamente etica. Lara, si dirà, non sa gestirsi da sola fino in fondo , non possiede gli strumenti cognitivi indispensabili per comprendere, sottolineando così l’imprescindibilità della sua dipendenza dagli altri. Considerazione, per taluni versi, incontestabile che tuttavia mette in subordine la questione principale dal punto di vista della soggettività . Il fatto, cioè, che Lara in quanto disabile intellettiva è consegnato nelle mani degli altri, in virtù del suo stesso handicap. Lo è perché così gli impone la sua realtà clinica, innanzitutto, e continuamente. L’abitudine a cercare il palesarsi del soggetto sul piano delle sue potenziali esternazioni rischia, talvolta, di far dimenticare come la genesi stessa del suo istituirsi rinvii primariamente al processo di lettura (o , meglio ancora, di interpretazione) che il singolo promuove relativamente alla sua posizione nel discorso parentale e in quello degli altri. L’esprimersi ne discende a sua volta, in maniera più o meno diretta, come un effetto. E non il contrario.
Il confronto con il paranoico può forse servire a meglio chiarire il quadro. Nel suo delirio, infatti, quest’ultimo offre una lettura , per quanto distorta, di quel che gli sta accadendo , nel momento in cui è sopraffatto dall’angoscia. Lo stesso Freud, del resto, era giunto ad affermare come il delirio costituisse un tentativo di guarigione. Tesi illuminante e , per nulla, provocatoria. Mi limito ad aggiungere: ma che cos’è un delirio, se non una teoria sull’origine del male che schiaccia lo psicotico ? E non è un delirio, in quanto costruzione immaginaria, una messa in opera della soggettività?
Impattiamo qui con il nodo indistricabile che tiene bloccata Lara. Lei non può fornire una sua teoria sul male che la colpisce, ne è incapace e non, ovviamente, per sua colpa. Letteralmente, non sa , quindi, come orientarsi, come difendersi, come tutelarsi, come farsi aiutare. Agostino d’Ippona riteneva che il male non possedesse un contenuto in positivo, essendo solo l’assenza del bene. La psicoanalisi, si potrebbe dire, gli assegna invece se non proprio un contenuto, una causalità materiale, tale cioè da permettergli da conferire all’inconscio stesso uno statuto primariamente etico. La suddetta causalità inerisce il rendersi presente di quei moti o pulsioni distruttive che veicolano un godimento devastante , nella misura in cui inibiscono nel singolo l’esercizio della soggettività ai livelli minimali. Com’è noto, Freud additava l’orizzonte mortifero di un simile scenario nei termini di un aldilà del principio di piacere. Implicitamente sotto intendendo lo stretto rapporto che univa la nozione regolativa del principio, e quindi del limite, con quella del piacere, o eventualmente del dispiacere.
L’assenza di una teoria o anche solo di un’intuizione del male espone il disabile al godimento altrui, a una soddisfazione che tende a far saltare i principii che la limitano. Lo stesso ostentato miraggio dell’autonomia, occorrerà pur riconoscerlo, risponde più alla domanda espulsiva del cosiddetto normale che non a una veridica esigenza del disabile. Senza una costruzione, più o meno fantasmatica, che miri a mettere a fuoco l’origine di quel che fa soffrire , è proprio il disabile a ritrovarsi risucchiato nell’area di manipolazione degli altri, potenziale oggetto di godimento del tutto alienato e fuori dal suo controllo.

Il tragico e il religioso.
Da qualsiasi prospettiva si affronti la tematica dell’handicap grave non si può non riconoscere come una simile questione si costituisca, si articoli su un fondo che è e rimane di natura inconfutabilmente tragica. Dissimularlo è un’operazione di matrice ideologica che , in omaggio a un ottimismo forzato e di circostanza, non rende giustizia al dolore di chi si trova a vivere tali esperienze. Per definizione, una tragedia è una rappresentazione che mette in scena una situazione che non ha vie d’uscita. Come tale, essa si presenta hegelianamente come una sorta di contraddizione di termini: è una rappresentazione , nell’accezione teatrale del termine, che si misura con quel che gli resiste, vale a dire con l’ordine dell’impossibile.
Storicamente, al tempo della sua nascita in terra greca, la tragedia ha svolto una funzione essenziale in chiave politica, quale prima forma di autocoscienza collettiva. La rappresentazione della sfida che l’impossibile pone all’essere umano apriva la strada alla consapevolezza che la percezione della propria solitudine alimentava. Il dramma proprio alla presa dall’atto dell’impossibile è , nel contempo, infatti, l’altra faccia del delinearsi implacabile del confine che marca la separazione tra il mondo terreno e quello celeste, tra il regno del visibile e quello dell’invisibile. Un taglio si consuma, la tragedia invita a farsene una ragione, non foss’altro per consumare quel lutto e reperire una strategia per andare avanti, confidando sulle proprie forze…
In Eschilo, in Euripide, in Sofocle, la sofferenza cerca una risposta, una logica: “ quale misura c’è nel male?” (v. 236) , si chiede Elettra nell’omonimo dramma sofocleo. Le supplicanti di Eschilo elevano il loro lamento, la pulsione invocante di cui parla Xcz vi si trova esaltata. Al centro, in questo caso, vi si collocano storie di donne, “questo sciame femmineo” (v. 30), così come altrove, comunque, storie che tessono la trama dei legami sociali, talmente importanti e decisivi da mettere in secondo piano il proprio tornaconto personale. Come afferma lo stesso Edipo: “ Non m’importa, se ho salvato questa città “ (v. 443).
Il bene pubblico è l’orizzonte primo e ultimo sul cui sfondo i protagonisti della tragedia spendono sino in fondo la carta della loro esistenza, senza risparmiarsi, senza calcoli meschini, facendo leva sull’unico sentimento di cui un essere umano deve dar prova di possedere: l’onore. Impagabile collante che annoda indistricabilmente tra loro la dimensione dell’individuale , lambendo le vette dell’eroismo, e quella del collettivo, imparentandola immaginariamente alla retorica dell’ideale.
Ma, l’handicap che posto può occupare in tutto questo? La tragedia classica non ne fa parola e, forse, non per mancanza di motivi. Come può, del resto, misurarsi con l’onore chi vi è impedito ad accedervi, e non per via di conflittualità sociali? Quale posto può ritagliarsi nella città? La tragedia consuma lo strappo tra gli dei e gli uomini. Non tutti, ovviamente, ma quelli che ne possono sopportare eroicamente la sfida. Per i disabili la questione non si pone, la loro posta in gioco attiene una partita ancor più radicale, non quella della separazione, ma quella della sopravvivenza. Dopo Platone, lo riprecisa Aristotele nella “Politica”, per l’appunto: “ Quanto all’esposizione e all’allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare nessun bimbo deforme” .
Schizofrenia del tragico. Il dramma è nella realtà degli accadimenti, nelle vite generosamente condannate alla morte, orfano però di una rappresentazione che lo metta in scena, che lo recuperi a un discorso capace di legittimare uno stato di cittadinanza.
E’ , in questo senso, che la tragedia si scontra con il suo antagonista di sempre, l’avversario che le contende l’egemonia sul medesimo terreno: la spiegazione del male. Non senza i necessari distinguo. Il discorso che si oppone alla tragedia è quello religioso, specie liberato dal bazar politeista. La Genesi lo ribadisce, più volte, sin dalle prime righe. Ciò che Dio crea è buono. Il male non gli appartiene, non viene da lui. Sono le passioni degli uomini, il loro incommensurabile egoismo, la loro sfrenata cupidigia a produrlo. Da qui si può dedurne , nel nostro caso, come ha mostrato Vito Mancuso 1, che anche i disabili possano configurarsi come figli del peccato, la prova tangibile di una colpa da espiare. D’altro canto, poi, è però Dio stesso che si impegna a riprendere ogni creatura nel suo grembo. Dio padre, Dio madre, Dio entrambi. 2 Dio Altro e simile 3 , insieme.
Il discorso religioso offre una soluzione a un genere, quello della tragedia, essenzialmente laico o laicizzante, per quanto in letteratura non manchino tragedie caratterizzati in un senso religioso, da Manzoni a Claudel, tanto per fare qualche nome.
E’ con il Vangelo, in particolare, più che con la Torah o con il Corano, che tuttavia il discorso religioso orienta in maniera decisa e inequivocabile la sua sensibilità nei riguardi degli individui segnati dalla sventura. La limpida e rivoluzionaria retorica del Cristo non conosce eguali. Di fronte ad essa, lo stesso Freud sembra ritrarsi infastidito. La prescrizione “Amerai il prossimo tuo come te stesso” suscita in lui un senso di sorpresa e di disappunto. A ragione, la ritiene di un’epoca più antica del cristianesimo che la ostenta “come la sua più grandiosa dichiarazione, ma certamente non antichissima” 4. Affermazione che suona , quanto meno, paradossale, quasi fosse l’effetto di una rimozione non riconosciuta come tale. La prescrizione evangelica riprende, infatti, alla lettera
quanto già espresso nel celebre versetto del Levitico : “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv. 18,19) e che si ritrova, al fondo , anche nel Deuteronomio : “Tu amerai lo straniero come te stesso” (Dt. 10,19) o nei Proverbi : “ Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se è assettato dagli da bere” (Pr. 25,21). Cristo recitava le preghiere ebraiche, lo “Shemà Israel” , in particolare, il cuore stesso del giudaismo. Marco lo riferisce con chiarezza: “ “Qual’ è il primo di tutti i comandamenti?”. Rispose Gesù: “ Il primo è questo: Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è l’unico Signore…. Il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. Altro comandamento più grande di questo non c’è” “ (Mc 12, 28-31). Lo ricorda a più riprese lo stesso Spinoza, come il tema comune che in modo chiaro e semplice sintetizza il messaggio biblico.
Azzardo un’interpretazione: il mancato riconoscimento della matrice ebraica del motto evangelico, l’irritazione che ne consegue possono , forse, suggerire che l’idea che il recupero cristiano del monito biblico tende provocatoriamente a forzare i limiti dell’amore per l’altro, oltre ogni compiacenza narcisistica, aldilà di qualsivoglia riflesso speculare. Così, d’altronde, come si può ritrovare negli autori ebrei più “contagiati” dal pathos cristiano, quali Simone Weil o Lévinas. Lo amore, si sa, designa per altro un sentimento dai confini dilatati e indistinti: uno scrigno capiente dal fondo oscuro e malleabile, quasi un vaso di Pandora appena appena rivestito di seducenti illusioni. Sia come sia, nella tradizione cristiana il richiamo all’amore vuole disvelare la magia onnipotente di un sentimento capace di negare la tragedia sino alla provocazione estrema di trasformarla in un dono, come avrebbe scritto Testori o narrato Flannery O’ Connor . Il disabile può offrire il suo sventurato destino a un volto del Cristo, perché vi prenda carne, o, come potrebbe dire Tommaso d’Acquino, a Dio stesso, nella misura in cui ogni creatura non è che un’imitazione, ovviamente, secondo i limiti e le possibilità della propria natura. La carità traduce il significato intimo di una simile disposizione: all’origine è un’inclinazione nobile dell’essere, la teofania sensibile attraverso cui il divino si rivela agli uomini ( 1 Gv 4,8 ). E’ solo la sua degradazione a ridurla al fare, al rito ipocrita dell’elemosina, alla cattiva coscienza dell’assistenzialismo.
In quest’amore dato, in quest’amore caritatevole, o che così dovrebbe o vorrebbe essere, oblativo, accudente, la rappresentazione che connota la posizione del cosiddetto “normale” è quella di una figura ritratta nell’atto premuroso in cui si china verso l’altro, anche a costo di immolarvi la vita. L’emblematicità del gesto ambisce , forse, a tacitare i fantasmi che lo popolano; l’affetto che lo governa tende a un movimento che mira a un’azione essenziale, quella del proteggere. L’amore come compimento della legge, Paolo docet, l’amore come legge. Assoluto, gratuito.
Un paradigma che suona alquanto materno, poco virile agli occhi delle esuberanze nicciane. Un essere che si spende per un altro, convinto dell’ineluttabilità della sua missione; un cerchio sembra racchiudere chi si prodiga e chi è l’oggetto delle cure. Come se l’amore, o quel che passa sotto quel nome, erigesse un’invisibile fortezza tutt’intorno. Una barriera contro il mondo, contro il rigetto che gli ributta indietro. Se il Cristo, il Cristo in croce incarna , infatti, questo simbolo della carità,
promuovendo quelle imitazioni della sua figura che tanta fortuna ebbero nei secoli scorsi, è chi gli sta a fianco a fornire al fondo la versione più toccante e sofferta della carità stessa. L’arte, come pure la devozione popolare, la celebra nella sua forma sensibile, capace di parlare alla babele delle lingue e dei linguaggi, come una parola che tutti possono intendere.
Se Cristo è abbandonato dal padre, quello che soggiorna nei cieli ( Mt, 27,46) , così non è della madre, quella che sta in terra. Le rappresentazioni della “mater dolorosa” si sprecano, nell’immaginario religioso, poiché ridanno voce a quello che l’inconscio, individuale e collettivo, recita. Il padre, quello con l’iniziale minuscola o maiuscola può aver abbandonato il figlio, non la madre, comunque. Quale sia il figlio, qualsiasi malefatta abbia mai commesso.
La carità o quel che appare di quel sentimento è una forma estrema di un amore che sembra appagarsi di sé stesso, non pretendendo nulla in cambio. O, forse, al contrario, richiede un prezzo così alto, da non poter nemmeno esser preso in considerazione. Il chinarsi comporta il piegarsi verso terra , verso chi sta in basso, verso chi giace in prossima del suolo. E’ l’opposto dell’innalzarsi. Il gesto disegna nell’aria una linea di curvatura che abbozza la forma di un cerchio,
il sogno irrealizzato di una pienezza asintoticamente mancata. Come se quel compassionevole chinarsi ambisse a inglobare in un unico corpo colui che lo compie e l’altro, l’essere umano al quale quella dedizione è indirizzata. O, perché no?, anche il contrario. Forse, infatti, è chi si dispone a quell’atto che domanda di perdersi in esso, di annullarsi nel dolore che il sofferente gli offre come una soluzione alla sua esistenza, come un rimedio nobile e insperato a un male che lo consuma dall’interno, senza concedergli tregua. Chi può indicare con puntigliosa esattezza dove finisce il disagio dell’uno e inizia quello dell’altro? Simbiosi, si usa dire. L’etimologia greca del termine ne declina con chiarezza il senso: “che vivono assieme”. O, probabilmente bisognerebbe aggiungere, che soffrono assieme e che , come tali, congiuntamente muoiono. Come se entrambi condividessero, boccone dopo boccone, quel pane amaro, indigeribile. Così la persona che si fa oggetto della carità altrui diventa una calamita che trascina e trasforma nel suo vortice anche chi compie l’atto. Il contagio marchia la persona pietosa, quando la sua azione è sincera, autentica.
Un segno indelebile, a tal punto che sia colui che umilmente si china non pare esser meno degno di carità di colui sul quale è piegato. Sia l’uno che l’altro si danno allo sguardo del mondo, invisi alla sua pretenziosa armonia, quasi che , forti della loro solitudine, desiderassero violentarla, ben sapendo di non riuscire nemmeno a scalfirla. Un grido contro un muro.
Antonia Guarini in “La mia vita accanto a Michele che non si sveglia mai” 5 riprende la testimonianza di una madre, Isa, che si prende cura del figlio in coma, per dieci anni, senza che lui possa fare un cenno che lo richiami all’esistenza. Isa e Michele sono i due volti di un unico dolore, la voce che parla, perché non può farne a meno, e quella tace, perché non può fare altrimenti:
la testimonianza di una presenza che non può allontanarsi, l’esserci di un uomo per cui il tempo si è fermato. La commozione manifesta quel disvelarsi dell’anima che l’incontro con la sventura può giustamente accendere. Quale ferita tocca più a fondo le corde della sensibilità? Quella di Michele? Quella di Isa? Come separare l’una dall’altra?
La complicità che accomuna le due figure assegna al cosiddetto normale una disposizione che trascende i limiti di una supposta regolazione. Responsabilità e amore si confondono tra loro, incalzati dall’emergere di una pressante e inconsolabile verità , come la tragicità dell’evento costringesse a far saltare ogni ordine di misura. Chi può d’altronde obiettare a Isa, alle sue legittime inquietudini? “ Io ho tutte le maglie strappate, le dita sono tutte storte perché se ti acchiappa , l’osso ti fa uscire fuori! E se perdo la pazienza io, che sono la mamma, come potrà un giorno una persona estranea , fare tutto questo? No, non ci voglio pensare. Io mi devo tenere su, devo stare bene, non posso invecchiare, che ne sarebbe di Michele? No, non lo posso pensare in un ospedale buttato lì. Se lo trascuri pure per un giorno, è finita. Sono io che devo controllare tutto, che devo ricordarmi di tutto. Basta un momento di distrazione e cominciano i rossori in tutte le parti del corpo. Niente ci vuole a formarsi le piaghe da decubito .Basta mezza giornata che il materasso ad acqua si sia rotto e noi non ce ne accorgiamo, ed è finita. Tutti i giorni così , dalla mattina fino alla sera a mezzanotte, per dieci lunghi anni. Mai un giorno diverso, mai un giorno di festa”6
Quante storie racconta e riassume quella di Isa ! La sua tragedia materializza, ciò nonostante, un dramma privato, nel senso letterale del termine: privato cioè di quel rapporto con la città, con la comunità che costitutiva l’essenza stessa della rappresentazione greca. Lì, era la solitudine degli uomini davanti agli dei a promuoverne l’autocoscienza, qui è la solitudine tra gli uomini a scandire la sofferenza degli individui. Loro allontanano Isa dal cerchio della loro convivialità, ma, chissà, forse è anche lei che non desidera che altri s’inseriscano nel rapporto esclusivo che ha creato con il figlio. La simbiosi si presenta, al fondo, come una solitudine a due, riparo dal mondo e custodia della sofferenza, e , proprio per questo, spia di un appello muto o urlato cui nessuna città, anche volendo, sarebbe forse in grado di rispondere. E’ quel che può spingere una madre a cercare quella che la Kristeva denomina come “un’oasi di carità” 7 o, ma non è in alternativa, un interlocutore Altro che trasformi la sua domanda in preghiera, il suo dolore in un oscuro risarcimento. Rivincita del religioso, come luogo di apertura e di chiusura , nel medesimo tempo, come inconscia liberazione di quell’aspirazione a trascendere che una tragica realtà, orfana per di più di un palcoscenico, di un pubblico, a stento tratteneva dentro di sé.
Lungo queste vie, la responsabilità che il normale sembra paventare nei riguardi del disabile predilige la lingua del cuore, i suoi umori e le sue ferite. L’incomprensione dello stato in cui versa il disabile fornisce alle lamentazioni che animano la denuncia della persona che ne prende il carico il loro reiterato contenuto. Incomprensione che rileva dell’ostilità o dell’indifferenza che gli altri
nutrono nei suoi confronti o, implicitamente, nei riguardi della coppia simbiotica stessa. Difficile, in questo caso, dissociare la responsabilità dall’azione alla quale pare istintivamente legarsi, quella del proteggere, quella della necessità del farlo. Simile al gesto rapido con cui, di fronte a un pericolo, le madri traggono contro il loro corpo, quello del bambino piccolo, senza che affetto o violenza si distinguano nettamente tra loro.
1) Vedasi il suo testo – Il dolore innocente
2) Vedi meschonnic
3) Vedi genesi
4) Sigmund Freud- Il disagio della civiltà – in Freud Opere, Boringhieri, Torino, 1978, vol. 10, p.597
5) Antonia Guarini – La mia vita accanto a Michele che non si sveglia mai – Poiesis- Alberobello, 2011
6) Idem, p. 18
7)
Julia Kristeva e Jean Vanier – Il loro sguardo buca le nostre ombre . Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso – Donzelli, 2011, p. 84


tratto da: www.lecconotizie.com

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